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Torna «Dallas» Quanta nostalgia del capitalismo

Eccoli lì a cavallo con i cappelli texani a larghe falde che cavalcano con l'iPhone in tasca, i pozzi di petrolio sullo sfondo, il padre feroce col figlio, le ragazze scolpite nei costumi da bagno, tra pianure (...)

(...) infinite, case sontuose, cieli più grandi che in Europa: sono tornati, sono la gente e il mondo di Dallas alla seconda edizione.
Dico la verità: io sono un consumatore tossicodipendente dei telefilm americani, dai Sopranos a Breaking Bad, da Weeds alla Good Wife, ma per Dallas non ho mai avuto un debole. Né ai bei tempi in cui imperversava la prima lunga serie, né oggi di fronte a questo remake prosecuzione. In America sta facendo invece faville e appena doppiato le farà anche in Italia, ne sono sicuro. Ma Dallas ha comunque un merito storico: è stato il telefilm seriale che ha portato nelle case degli europei e dunque anche degli italiani, un'America sconosciuta. Non più Brooklyn e gli emigranti, non Hollywood con le stelle del cinema né la California del vino e del surf, ma un Texas sfrontatamente ricco abitato da gente sfrontatamente bella. Anche nelle prime puntate che sono andate in onda negli Usa si vedono solo corpi palestrati, fanciulle solide ed erotiche, vecchi col cancro che se ne vanno in giro a cavallo aspettando la morte con il sigaro in bocca e tutti sono belli, decorosi, eroici e cattivi. L'America di Dallas è un'America realistica. Dura perché fa affari ed è sempre in bilico nella scelta dei valori, se venga prima il business o prima la famiglia, la quale ultima raramente vince. Il padre che divora i figli come Urano è la regola, le intemerate in cui sesso e denaro si fondono nell'odore del petrolio sono la norme.
Quell'America affascinante e scostante, esotica e modernissima ha dato in Italia l'impronta a un cambio di immagine. Quello dell'America kennediana ancora sentimentale benché bagnata dal sangue della guerra in Vietnam che cominciò proprio con John Fitzgerald, che cede il passo all'America reaganiana. L'America del pugno di ferro con l'impero del male (che dovette cedere e arrendersi). L'America dell'orgoglio e della ricchezza, quella che da noi fu definita - mi sembra da Roberto D'Agostino - l'epoca dell'edonismo reaganiano. Dallas è una serie «di destra», per così dire e per quel che valgono i paragoni. È un'America repubblicana e texana, un Paese che ignora l'esistenza dell'Europa di cui non ha alcuna nostalgia e con cui non intrattiene legami. I cognomi italiani nel cast sono pochissimi e l'immagine che emerge da quest'opera è quella di uno splendido, ma anche egoistico, isolazionismo. E l'isolazionismo è una delle anime occulte del popolo americano che alle latitudini del Texas e di tutti gli Stati meridionali vorrebbe vivere in grandiosi isolamenti, morire sulla propria terra, non prima di averla punzecchiata quanto basta per farle sputare tutto il petrolio che ricopre con le sue praterie e gli armenti, trattati come gigantesche provviste di bistecche. Tutti cavalcano, tutti si tuffano in piscine come piccoli mari nel giardino, tutti hanno un cuore spezzato ma un portafoglio discretamente pieno.
E poi il matriarcato. In Dallas prevale la donna. La donna fa affari e contrasta e si gioca gli uomini sulla punta delle dita. Dietro ogni grande uomo c'è una seduttrice che fa i conti con le proprietà, le eredità, i matrimoni. La società è tanto tecnologica quanto arcaica: ci sono i re e i soldati, gli schiavi e le regine, le ancelle e le filles de joie. Ma su tutto quel grande orizzonte texano e primitivo - benché tecnologico - echeggia il mito del vero americano, dell'uomo del nuovo mondo che cerca di togliersi di dosso le ingordigie dello Stato sociale, del welfare, delle diavolerie del vecchio continente, perché intende restare solo e svettare da solo facendo affari, aggregando famiglie, creando e distruggendo patrimoni. Dallas è tornato ed è tornata quell'America che molti anni fa sorprese gli italiani, anche quelli di sinistra, e li mise a contatto con il tesoro sommerso di una identità lontana come può essere lontana la luna. La luna nel Texas è dieci volte più grande della nostra.

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