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Venezia si rifà il Bucintoro «L'ho voluto io, un terrone»

Prima che nel 2011 morisse, ho avuto modo di esplorare da vicino il calvario gioiosamente affrontato dal miglior modellista navale che il nostro Paese abbia dato al mondo, Imperio Beraldo, per costruirsi nella sua casa di Mogliano Veneto (Treviso) un Bucintoro in scala 1 a 30 con cui vinse tre campionati italiani, tre europei e tre mondiali: 7.000 tesserine romboidali intagliate a mano una per una e dipinte di nero e giallo per creare il pavimento a mosaico del ponte, foglie d'oro zecchino per 2 milioni di lire stese con infinita pazienza su un centinaio di sculturine sbozzate dal legno di pero utilizzando come sgorbie le stecche d'ombrello, cinque anni di lavoro, oltre 7.000 ore di polveri inalate che aggravarono la sua asma fino a rendergli penoso il respiro. Ecco perché tremo solo all'idea delle peripezie che dovrà affrontare il qui presente Giorgio Paternò, veneziano abitante al Lido, il quale s'è messo in mente di varare un Bucintoro in scala 1 a 1 identico all'originale, 34 metri di lunghezza, 8 di larghezza, 6,5 di altezza, 100 tonnellate di peso, in grado di ospitare a bordo 168 rematori e 200 passeggeri. Anzi, non «un» Bucintoro, bensì «il» Bucintoro, la nave di rappresentanza dei dogi utilizzata nella festa della Sensa - l'Ascensione - per celebrare lo Sposalizio del mare, il simbolo stesso della Serenissima, quello che Napoleone Bonaparte diede alle fiamme il 9 gennaio 1798 per fondere il metallo prezioso, centinaia di chili, che lo rivestiva (donde la definizione di «burchio d'oro» da cui deriverebbe il nome).
Una sfida da 15 milioni di euro che ha dell'incredibile. Ma Paternò, segretario della Fondazione Bucintoro, ha la tempra per vincerla, a dispetto dei suoi 77 anni. Da colonnello dei Lagunari - oggi generale per sopraggiunta pensione, guai però a chiamarlo con il grado più elevato - trasformò in un eden l'isola di Sant'Andrea che era ridotta a una Caienna, ci addestrò generazioni di Rambo e si vide consegnare la bandiera di combattimento dal presidente della Repubblica, Sandro Pertini, che lo premiò elevando a battaglione quell'avamposto di eredi dei «fanti de mar» un tempo difensori di Venezia.
A Giorgio Paternò, originario di Messina, il coraggio non ha mai fatto difetto. «Mio papà, Salvatore Paternò principe di Biscari, era un patrizio decaduto. Sul letto di morte mi consegnò l'anello di famiglia tramandato di padre in figlio: “Giugiuzzo, vedi che vi sono effigiate quattro palle? In araldica stanno a significare i quarti di nobiltà. Ecco, tu bada solo a onorare le due che hai”». Raccomandazione superflua, giacché il coraggioso Giugiuzzo già da bambino aveva guardato in faccia la morte senza tremare. Accadde quando il genitore, colpevole di nascondere gli sbandati e di sfamare i poveri, fu messo al muro dai soldati tedeschi. «Mia madre Pina schierò me e i miei fratelli Uccio, 5 anni, Nunzio, 6, Virginia, 9, accanto a lui e disse: “Bambini, è finita. Andiamo tutti con papà. È solo un attimo, chiudete gli occhi”. Io, che sono sempre stato molto curioso, li tenni aperti. L'ultima immagine furono i mitra spianati e il pellicciotto di coniglio bianco indossato da Uccio. Ma, prima che partisse la raffica, arrivò uno Spitfire inglese in picchiata e tutti fuggirono, i nazisti per primi».
Nella sua personalissima guerra per far rinascere il Bucintoro, che combatte dal 1987, il generale Paternò ha già vinto tre battaglie decisive. La prima: è riuscito a far entrare nella fondazione il sindaco di Venezia, cedendogli il posto di presidente. La seconda: ha costretto il governatore del Veneto a lanciare un appello affinché sponsor generosi e privati cittadini finanzino l'impresa. La terza: ha suscitato l'interesse del regista Patrick Brunie e del produttore cinematografico Alain Depardieu, fratello dell'attore Gérard, che hanno girato un documentario sotto il cinquecentesco soffitto ligneo a capriate dell'Arsenale di Venezia, dove il cantiere di questo Bucintoro del terzo millennio ripartirà a breve dalla sezione maestra dello scafo, già costruita. «Depardieu ha prodotto quattro film premiati a Cannes con la Palma d'oro, fra cui Lezioni di piano. Mi ha chiamato nei giorni scorsi: “Giorgio, che ne diresti se per ogni rematore coinvolgessi un regista e gli chiedessi di girare uno spezzone? Sai che bel lungometraggio ne uscirebbe?”. Gli ho risposto: lusingato, Alain, ma guarda che i rematori sono 168. “Ottimo, telefono subito al mio amico Quentin Tarantino e cominciamo”. Fantastico, no?».
Mi sembra che la terza battaglia sia appena agli inizi.
«Nel frattempo ne ho vinto una quarta, più importante: dopo 217 anni sono riuscito a mettere pace tra la Francia e la Serenissima. Sempre per interessamento di Depardieu e Brunie, la Dordogna, l'Aquitania e la città di Bordeaux hanno deciso di accollarsi un risarcimento simbolico per gli scempi e le ruberie compiuti da Napoleone nel 1797: ci donano il legname per ricostruire il Bucintoro. Sono 600 tronchi provenienti da boschi di rovere, abete e pino rosso piantati ai tempi di Luigi XIV, il Re Sole. Valore commerciale, mezzo milione di euro. Arriveranno a Venezia lungo il Po e via mare il 1° giugno, per la festa della Sensa».
Che rivincita.
«Già nel 2009 avevo scritto all'allora presidente Nicolas Sarkozy e lui mi aveva subito risposto. Era tempo che la Francia ci mettesse una pezza, soprattutto dopo che il Bonaparte è stato condannato con tanto di processo storico da un collegio giudicante presieduto da Antonio Fojadelli, capo della Procura di Treviso».
Da quanti anni vive a Venezia?
«Dal 1958. Scappai dalla Sicilia inseguito dalla mafia. Avevo visto un pescatore ucciso con una coltellata al cuore per essersi lamentato del compenso esiguo ricevuto dopo una nottata passata in barca. Arrivai qui da sottotenente. Era il giorno della regata storica, presente il capo dello Stato, Giovanni Gronchi. Non ero mai stato prima a Venezia. Mi sedetti sui gradini della stazione ad ammirare il Canal Grande. Che magnificenza!».
Com'è nata la sua ossessione per il Bucintoro?
«Nel 1987 fui eletto presidente del comitato per la festa della Sensa. Scoprii che prefetto, sindaco e altre autorità locali vi mandavano i loro motoscafi senza nessuno a bordo, vuoti. Oggi invece è tornata a essere uno dei quattro grandi eventi veneziani, insieme con il carnevale, la regata storica e la festa del Redentore. Però in quel giorno manca sempre il protagonista assoluto, quel Bucintoro da cui il doge si affacciava per gettare un anello nell'Adriatico, a significare l'indissolubile supremazia dello sposo, il massimo rappresentante di Venezia, sulla sposa, la mar, il mare al femminile. Ho pensato: ce lo dobbiamo costruire».
Una parola.
«Al Museo storico navale abbiamo supplicato l'ammiraglio Paolo Pagnottella di aprirci la teca dov'è custodito l'unico modello rimasto al mondo, il più fedele all'originale, costruito in scala 1 a 10 dagli arsenalotti nel 1824 prima che venisse demolito per sempre lo scafo nudo del Bucintoro, ribattezzato nel frattempo Prama Hydra e adibito a batteria galleggiante con quattro cannoni per la difesa del Lido. Nel 2004 il progetto ha avuto il bollino rosso di approvazione dal Rina, il Registro italiano navale».
Restava solo una folle idea su carta.
«È quello che subito mi obiettò anche Davino De Poli, titolare con i fratelli del cantiere sull'isola di Pellestrina dove nascevano mercantili da 50 metri, gasiere e vaporetti: “Mi fasso navi, no' Bucintori”. Avevo già raggiunto con le pive nel sacco l'imbarcadero per il Lido, quando squillò il cellulare. Era De Poli: “Torna indrìo”. Mi precipitai. Mi disse: “Posso far 1.000 navi, e nissun se ricordarà de mi quando che sarò morto. Ma se rifasso el Bucintoro, nissun me desmentegarà più!”. E così costituimmo la fondazione. Solo che i lavori s'interruppero presto».
Per quale motivo vennero sospesi?
«La magistratura sequestrò il cantiere a causa di due incidenti mortali, le banche pretesero il concordato preventivo e i De Poli emigrarono in Olanda a costruire navi per la Cina. Ora insieme a Comune, Provincia, Arsenale, Camera di commercio, Magistrato alle acque e altri enti vorrei fare del Bucintoro un museo itinerante della pace e una scuola per il recupero di arti e mestieri in via d'estinzione a Venezia».
Più facile a dirsi che a farsi.
«Conto di arrivare al varo nel 2018. Sono già in parole con 20 artigiani, ognuno dei quali seguirà 10 apprendisti. Apriremo un bando regolare. Cerchiamo maestri d'ascia, carpentieri, calafati, falegnami, intagliatori, scultori, fabbri, remèri, intarsiatori, tappezzieri, tessitori, stuccatori, cordai. Artigiani come Sabrina Berta, una delle poche battiloro rimaste in Italia. Ovviamente saranno pagati».
Come?
«Il costo del Bucintoro è stato ripartito in 24 carati, dall'arabo quirat, che rappresentavano la suddivisione della proprietà di una barca nella Repubblica veneta. Bnl e Bnp Paribas hanno già aperto la sottoscrizione presso i loro sportelli. C'è chi dona un centomillesimo di carato, 6,25 euro, e chi un centesimo, 6.250 euro. Sarebbe bello se qualcuno acquistasse un carato intero, 625.000 euro. I nomi dei benefattori saranno scolpiti a bordo».
Quanti Bucintori furono costruiti dalla Serenissima?
«Non si sa. Il primo venne ordinato dal doge Pietro II Orseolo nell'anno 1000 per festeggiare la liberazione della Dalmazia dai pirati narentani. Il secondo fu costruito nel 1177, quando Papa Alessandro III concesse al doge di celebrare lo Sposalizio del mare in segno di riconoscenza per aver propiziato l'incontro di pace fra il pontefice e Federico Barbarossa nella basilica di San Marco. Ogni Bucintoro era un Palazzo Ducale galleggiante e durava circa un secolo, contro i 15 anni delle navi da guerra».
Questo spiega la grande vitalità dell'Arsenale di Venezia.
«Nato nel 1200, è stato la prima catena di montaggio nella storia dell'umanità. Arrivò a impiegare 15.000 operai. Si narra che nel 1574 una nave vi fosse stata costruita nel giro di soli tre giorni per farne dono a Enrico III, re d'Ungheria e futuro sovrano di Francia, in visita a Venezia. I 55 scali dell'Arsenale assicuravano alla Serenissima la più grande flotta del Mediterraneo, 100 galee con 40.000 uomini, e ai tempi della battaglia di Lepanto arrivarono a vararne due a settimana».
Perché a prua vi era la statua della Giustizia con la bilancia e la spada?
«Perché quello era il simbolo stesso della Serenissima. La quale non si identificava solo nel Bucintoro, ma anche nella Futa, barca dipinta con la pece, ancorata davanti all'isola di San Giorgio, adibita all'esecuzione delle sentenze. Taglio del dito indice della mano destra per chi urinava nei canali. Taglio del braccio per chi piantava una briccola in acqua, poiché “palìna fa palùo”, la palina fa palude, cioè produce sedime, sino a formare un'isola di sabbia che altera l'equilibrio ambientale. In tempi di dissesto idrogeologico, quali gli attuali, merita d'essere ricordato altresì che colui che avesse manomesso gli argini del fiume Brenta “s'intendi immediate esser incorso in irremissibil pena d'essergli tagliata la man destra et cavato un occhio”. Però va ricordato che l'istituto della conversione della condanna in una sanzione pecuniaria è nato a Venezia».
L'ultima uscita del Bucintoro quando avvenne?
«Per la festa della Sensa del 1796. L'anno dopo, il 12 maggio, Venezia capitolò. Il doge Ludovico Manin disse a Giovanni, il suo servo: “Nane, 'ndemo, che la Republica xe finìa”. S'era arreso a Napoleone per salvare i propri possedimenti in Friuli. Noi torneremo a coniare l'osella d'oro che il doge regalava al patriziato a Natale, recante il profilo del Bucintoro e l'iscrizione “Non est inventio similis illi”, non si è inventato nulla simile a quello».
I veneziani si offenderanno nell'apprendere che il Bucintoro lo fa rinascere un terrone.
«Sono siciliano, ma i miei figli e i miei nipoti sono veneziani. In questo progetto ho investito tutto quello che avevo. Mia moglie si lamenta perché ho superato la soglia di sopportazione tecnica, finanziariamente parlando. Non a caso ho fatto testamento in vita e girato il potere di firma ai figli. Io sono rimasto senza un euro».
Dica la verità: i veneti sono razzisti?
«No, nel modo più assoluto. Mai una volta mi hanno fatto pesare il mio accento siculo. Anzi, il compianto Albino Dei Rossi, detto Strigheta, il più grande campione del remo di tutti i tempi, volle che gli concedessi l'onore d'essere portato in gondola da lui, come aveva fatto con Paolo VI e Giovanni Paolo II. Giunti alla fine del Canal Grande, mi disse: “Questa è la mia Venezia. Adesso è anche sua”».
(688. Continua)
stefano.

lorenzetto@ilgiornale.it

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