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Il vizietto russo del carro armato

Dall'Ungheria alla Georgia, Mosca ha sempre schiacciato le rivolte con i cingolati. Soprattutto quelle degli "amici"...

Il vizietto russo del carro armato

Da quando ho memoria, e anche prima, i russi per loro natura invadono. O almeno questa è stata la vocazione dell'Armata rossa, pienamente ereditata a quanto sembra da Vladimir Putin, che mentre chiude le Olimpiadi invernali, all'insegna molto militare di una sicurezza blindata, sembra ripetere nello stile l'impresa del 2008 in Ossezia e in Georgia, quando promise che avrebbe «attaccato per le palle ad un albero» il presidente Mikheil Saakashvili. Oggi non siamo ancora a questa idea della crocefissione genitale, ma le premesse ci sono tutte: truppe fantasma, senza insegne e senza mostrine, il volto mascherato, affluiscono in Crimea, si piazzano nelle strade come gli alieni dei racconti americani degli anni Cinquanta, mentre i blindati cingolati fanno crepare l'asfalto e materializzano anche in senso pittorico l'invasione.
Se mi riferisco alla mia memoria di vecchio ragazzo nato insieme alla guerra, la prima invasione sovietica con carri armati e mitragliatrici che abbia inciso la mia memoria fu quella del 1953 quando i carri armati furono scatenati contro gli operai in rivolta a Berlino Est. Allora, Stalin era appena morto e al Cremlino era scoppiata la lotta anche a colpi di pistola fra il crudelissimo e raffinato cekista Berija, l'obeso Malenkov che ricordava il nazista Goering e Nikita Krusciov (che vinse), il quale diventerà poi - chissà perché - un'icona della pace e della fratellanza universale insieme a Papa Giovanni XXIII e poi a John Fitzgerald Kennedy.
Tre anni dopo, ottobre 1956. Krusciov e metà del Politburo, incerti sul da farsi di fronte alla rivolta degli operai e degli studenti di Budapest - tutti ricordano la celebre foto dell'inviato Indro Montanelli con macchina da scrivere sulle ginocchia, cappotto e cappello di sghimbescio - si lasciarono convincere dal segretario italiano del Pci Palmiro Togliatti e da quello cinese Mao Zedong, a procedere all'invasione e schiacciare nel sangue la rivoluzione ungherese. Togliatti in particolare fece la voce molto grossa: il Pci in cui Giorgio Napolitano era nel gruppo dirigente (lo riconoscerà, pentito, in alcune interviste recenti) bollò come «fascisti» i ragazzi che combattevano rovesciando tram e contendendo ai carri russi ogni centimetro di strada.
Fu una repressione vigliacca e mostruosa condotta contro leader rivoluzionari di sinistra, comunisti o socialisti, che poi furono impiccati senza pietà. Quella rivolta, quella repressione, le nostre gigantesche manifestazioni di allora, segnarono la mia generazione per sempre e impressero - specialmente sui giovani di sinistra libera e anarchica - il marchio del rifiuto globale, eterno, indelebile per il comunismo comunque camuffato: quella fu l'origine della diaspora fra i socialisti italiani, quando i fiancheggiatori della invasione sovietica furono battezzati col nome spregiativo di «carristi», un marchio d'infamia che si portarono dietro fino alla morte.
E poi Praga. La primavera di Praga del 1968. La speranza. Il mio amico fraterno giornalista Giampaolo Bultrini che telefonò all'alba per dire che a Praga aveva «nevicato». Le strade erano coperte da una coltre di carri armati. La folla li circondava, i cittadini praghesi offrivano fiori ai carristi russi che erano perplessi, poi ci furono le cannonate, le mitragliatrici, i morti, altri fiori, le ragazze che salivano sui carri per strappare i soldati dalle macchine infernali, Alexander Dubcek, il premier mitissimo e un po' goffo della «primavera» che vide svanire ogni speranza e che dovette dimettersi finché l'ordine dei carri armati non ripiombò Praga nella depressione e nel dolore. Quella fu la Praga che io trovai quando finalmente il comunismo cadde per l'effetto domino del Muro di Berlino (che fu fatto cadere personalmente da Gorbaciov in un vasto disegno di smaltimento dell'impero) e allora trovai una città depressa, paralizzata mentalmente, incredula. Era finita la Praga raccontata da Kundera nell'Insostenibile leggerezza dell'essere che allora nessuno o quasi lesse.
Il disfacimento dell'impero sovietico deciso da Eltsin, lo scioglimento formale del Kgb (che cambiò nome ma si raggruppò sotto nuove sigle e che riconquistò il potere civile, politico ed economico) e l'abbandono delle province imperiali, cioè degli Stati indipendenti che si staccarono dalla madre Russia come l'Ucraina, determinarono una situazione devastante: in ogni Paese post sovietico e fin dai tempi di Stalin, erano stati immessi milioni di immigrati russi legati alla madre patria. Così per esempio in Ossezia, nel 2008 fu facilissimo per Mosca dimostrare che a chiamare le truppe russe era la grande comunità russa e russofona, che aveva il passaporto russo in tasca e che non voleva avere a che fare con i georgiani. Oggi accade la stessa cosa in Ucraina che è etnicamente divisa in due, la parte occidentale filo europea e quella orientale russa per lingua, tradizioni e modi. Quella parte russa ha armato le sue milizie mentre entravano ed entrano in queste ore in Crimea uomini armati senza bandiera né mostrine né gradi che parlano russo e che prendono possesso dei crocevia, della televisione, dei telefoni, dell'energia.
Soltanto i russi hanno agito ed agiscono in Europa muovendo divisioni di carri armati, di paracadutisti o di Spetsnaz (truppe speciali d'assalto) e questo vizio l'hanno ereditato anche dagli albori dell'Unione Sovietica. Nel 1919 Lenin infastidito dalla Polonia ne ordinò l'invasione che però finì male, con l'Armata rossa umiliata. Stalin dieci anni dopo fece uccidere circa un milione di ufficiali responsabili di quella sconfitta e attaccò nel 1939 la Polonia da Est mentre il suo (a quel tempo) compagno di merende Hitler la attaccava da occidente. E poi ci fu la Finlandia, invasa senza neanche cercare un pretesto e per puro spirito di rapina, dove i russi furono battuti dagli eroici sciatori soldati finlandesi (Curzio Malaparte fu un cronista di quell'epica). Ma quella è ormai storia remota. L'oggi è sotto i nostri occhi ed ha, bisogna riconoscerlo, un sapore antico, un suono familiare e terribile.

Quello del cingolo dei carri armati che la Russia seguita a produrre in quantità inimmaginabili, sconosciute ad ogni altra potenza della Terra.

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