Cronache

«Io tra i novemila cadaveri affondati a Creta»

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«Io tra i novemila cadaveri affondati a Creta»

Alessandro Massobrio

«Cefalonia? Certo, ma non c’è stata soltanto Cefalonia». Siamo seduti nella cucina del signor Alessandro Uca, in un caldo pomeriggio di fine maggio. E non siamo soli. Il signor Uca ha convocato una sorta di rimpatriata di reduci dell'ultima guerra. Qualcuno con alle spalle la campagna di Russia, qualche altro quella di Grecia. Senza contare quelle manciate di giorni spese sul confine francese, quando, ad inizio del conflitto, Mussolini pensava con il minimo sforzo di partecipare poi al banchetto dell’alleato tedesco. No, non c’è stata soltanto Cefalonia. Alessandro Uca ha la mente piena di idee e le labbra di parole. Vorrebbe dire e dire ancora, ma l’età - è del venti - gli gioca qualche tiro birbone. Sua moglie, invalida, continua a ripetergli di non divagare, di raccontare soltanto il nocciolo del problema. Ma lui ha fatto troppo digiuno di parole. Ha bussato a tante porte: Costanzo, Sgarbi, Ferrara e tutti gli hanno detto che la guerra, sì, è terribile, ma, come si dice, à la guerre comme à la guerre. Di fatti strazianti ce ne sono stati tanti. Uno più, uno meno…
Però Cefalonia non è stata la sola e non è stata neppure la più terribile. A Cefalonia - ormai lo abbiamo imparato più dalle fiction televisive che dai libri di storia - dopo l’armistizio dell’otto settembre, i tedeschi uccisero quasi 5000 soldati italiani per rappresaglia. Ma che dire quando a morire sarebbero stati addirittura in 9000 e non per mano degli ex alleati tedeschi ma dei nuovi alleati britannici? È il caso di Creta. Un caso quasi volutamente messo in sonno e dimenticato. Un caso rimosso, come se rivangare certe cose facesse a pugni con il politicamente corretto, con determinate regole che la nuova Europa, l’Europa bocciata dal non francese, non può permettersi proprio adesso di ricordare. Certo, erano momenti di gran confusione, quelli. Era il 1943 ed Alessandro Uca, genovese di Certosa, figlio di un antifascista di ferro, uno di quelli che non avevano accettato di salutare romanamente neppure dopo aver assaggiato manganello ed olio di ricino, era approdato a Neapolis, un fertile altopiano a circa trecento metri sul mare, con almeno altri trentamila uomini. C’era l’intera divisone italiana Siena formata da artiglieria, fanteria, carabinieri, camice nere, uomini del genio.
Uca, che era marconista, avvertì subito che la situazione, dopo il proclama di Badoglio, si andava complicando. Intanto, gli aerei - cicogna che volteggiavano instancabilmente nel cielo gettavano sulle truppe volantini propagandistici. L’Italia è risorta, annunciavano. Gettate le armi se non volete passare per ribelli. Correvano voci che persino il generale italiano, nell’universale confusione, avesse preferito separare la propria sorte da quella dei suoi uomini e salire a bordo di un sommergibile, che aveva poi fatto rotta sul Cairo. Che fare? Trentamila uomini abbandonati dai loro ufficiali, in un territorio che d’improvviso diventava nemico, con alle spalle, sulle montagne dense di vegetazione dell’isola, i partigiani greci, pronti a calare come falchi su quanti avessero perso contatto dal grosso. L’armata «sagapò», l’armata dell’amore, come da quelle parti chiamavano l’esercito italiano, depose le armi. I tedeschi, efficienti nonostante la pugnalata, vibrata alle spalle dell’ex alleato, presero tutti prigionieri. Alessandro Uca ed i suoi compagni di sventura furono prima condotti a Candia, la capitale dell’isola, e successivamente a nella baia di Suda, a La Canea Nerocudu.
Era la seconda decina del mese di ottobre. Uca, che era telegrafista e possedeva una particolare propensione per le lingue, che gli aveva permesso di capire e farsi capire dal personale germanico, fu inserito in un reparto militarizzato, dove le notizie dal mondo arrivavano per telescrivente (le prime che il nostro protagonista avesse mai visto). Ma non fu per telescrivente che gli giunse la notizia. Arrivò attraverso quel passaparola che spesso, dove gli uomini vivono oppressi da una comune minaccia, funziona in maniera più rapida ed efficace di qualsiasi strumento tecnologico. E fu la notizia dell’eccidio di ben 3000 prigionieri italiani, scesi nel fondo del mare dentro le stive della nave «Sinfra», centrata dal fuoco dell’aviazione britannica. «Era il 18 di ottobre del 1943 - ricorda un testimone oculare, Enzo Dellarovere, in una lettera inviata al Giornale, qualche anno or sono - salpammo all’imbrunire da La Canea e dopo circa tre ore di navigazione (notte limpida, luna piena splendida ed un mare come olio) fummo intercettati da due apparecchi inglesi che ci bombardarono alla luce dei bengala, centrando, con manovra in picchiata, la nave proprio nella ciminiera. La nave s’incendiò e si fermò… Da quel momento il comando venne assunto da un capitano delle SS. Dalle stive provenivano le urla dei soldati intrappolati che tentavano inutilmente di salire in coperta perché, sotto il peso della persone che si accalcavano, erano crollate le scalette di accesso…».
Pochi mesi più tardi, 8 febbraio del ’44, la stessa sorte toccò alla nave Petrella, che trasportava ancora in Germania ben seimila prigionieri italiani. Questa volta fu il siluro di un sottomarino inglese a provocare la catastrofe. E per giorni e giorni - racconta Uca - la risacca portò sulla spiaggia di La Canea i corpi gonfi ed ormai irriconoscibili di decine e decine di connazionali. A cui solo la pietà di alcuni frati del luogo e di altri prigionieri italiani consentì di trovare riposo sotto la soffice terra cretese. «Cefalonia? Non c’è stata soltanto Cefalonia». E così dicendo, Alessandro Uca mi porge una fotografia ingiallita. Ritrae una decina di persone sul piazzale della Guardia. Alcuni (Uca stesso, quasi irriconoscibile) indossano ancora il giubbotto militare. Sul retro si legge: Nostra Signora della Guardia. 12 maggio 1946.

Reduci Creta.

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