L’abbaglio di «Time» sull’immondizia in Rete

La televisione «collaborativa» del futuro impazza e il settimale Time, come Tafazzi che si prende a bottigliate sull'inguine, cade nella trappola. Titola sulla nuova «democrazia digitale» quando invece si dovrebbe parlare ormai di «demagogia digitale». «YouTube», la tv fai da te, con migliaia di video prodotti dal pubblico, comprata per un miliardo e mezzo di dollari da Google; il «Venice project» degli inventori di «Skype» e «KaZaa» per una nuova tv peer to peer (condivisione «da pari a pari» di video fra gli utenti del web, come era stato fatto per la musica); l'esplosione dei blog (milioni di informazioni e commenti autoprodotti e visti da una coriandolizzazione di minicomunità di utenti); «Wikipedia», l'enciclopedia online con centinaia di migliaia di lemmi scritti da chiunque nel mondo e ormai piena zeppa di strafalcioni e di definizioni partigiane: sono questi i fenomeni che hanno indotto Time a commettere un autolesionistico errore di valutazione. Il consueto personaggio dell'anno, infatti, questa volta è stato rappresentato da una copertina a specchio. Il titolo diceva: «Person of the Year: You». «Nel 2006 – ha scritto Lev Grossman su Time – il World Wide Web è diventato uno strumento per condividere i piccoli contribuiti di milioni di persone e farli diventare notizie». Una trappola pericolosa.
Per anni il tema della deontologia dell'informazione (una specie di parolaccia che ci ricorda che la comunicazione è una cosa eticamente delicata) ha tenuto deste le coscienze. Il filosofo Karl Popper aveva proposto addirittura una patente per chi fa la tv. Adesso invece il dibattito è scomparso. È la vittoria definitiva del «relativismo». In questa esplosione delle informazioni peer to peer ogni opinione è valida di per se stessa. Un fenomeno culturale e sociologico che è nato prima del web e che ormai è già rimbalzato fuori dalla rete ricadendo nella nostra vita di tutti i giorni. All'inizio furono i «talk show», programmi televisivi dove le chiacchiere dovevano dare spettacolo. Fu il primo approdo del relativismo di massa. Ognuno aveva ragione e ognuno poteva strillare le proprie sciocchezze. Bastava essere dotati di una qualche forma di appeal. Un insulto, una parrucca vistosa: ogni trucco andava bene. Poi la tecnologia ha aiutato la crescita del fenomeno. Le dimensioni sono così macroscopiche che, mentre i masochistici giornalisti di Time si inchinano alla fine delle loro carriere, molti studiosi cominciano ad interrogarsi sul «trash digitale», la spazzatura del web di cui ormai sono pieni i nostri computer. Maldicenze, bugie, millantati crediti, finte indagini, scoop cretini si rincorrono ogni giorno dentro e fuori la rete (vogliamo parlare del video di Deaglio sui presunti brogli elettorali, per esempio?) creando leggende metropolitane al confronto delle quali la notizia degli alligatori albini nelle fogne di New York diventa una storia da premio Pulitzer.
Qualche tempo fa il ritratto del giornalismo televisivo del passato fatto da George Clooney nel suo film «Good night, good luck» (la vera storia di Edward R. Murrow, l'anchorman della Cbs che sconfisse il senatore McCarthy) si chiudeva con questa citazione. «La televisione – disse Murrow ai suoi colleghi – può insegnare, può illuminare; sì, può anche ispirare. Ma può farlo solo a patto che gli uomini siano determinati a usarla per questi scopi. Altrimenti non è niente di più che cavi elettrici e luci dentro una scatola.

Buona notte e buona fortuna».

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