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L’appendice di un anno vissuto pericolosamente

Da domani in edicola col Giornale il libro intervista di Vittorio Feltri: "Vi spiego perché a Natale 2010 sono ritornato a Libero e dopo neppure sei mesi ho compiuto il percorso inverso"

L’appendice di un anno  vissuto pericolosamente

Era l’11 otto­bre 2010. Ave­vo spedito da appena sette ore l’originale del Vittorioso al mio edi­tore, Marsilio, con l’accordo che uscis­se a metà gennaio di quest’anno per evitare la ressa delle feste natalizie, quando gli scaffali delle librerie rigurgitano di strenne più che le vetrine delle salumerie di zamponi.All’improvvi­so un incubo nel cuore della notte. Sudo­re freddo. Oddio, mi tocca riscriverlo dac­capo! E la copertina? Da rifare anche quel­la. La netta percezione di dover rimettere mano ai fatti, ai giudizi, agli incastri tem­porali, alla gerarchia dei capitoli. Ho lavo­rato tutta l’estate per nulla!

Il presidente della Marsilio è Cesare De Michelis. L’editor che mi segue da oltre dieci anni si chiama Annalisa Longega. Al mattino cominciai a tempestarli di telefo­nate, e-mail, Sms: «Non aspettiamo gen­naio, usciamo subito».Come se fosse faci­le mandare in libreria un’opera sia pure già scritta. Stamparla sarebbe il meno: ap­pena 24 ore alla Grafica Veneta di Fabio Franceschi, lo Speedy Gonzales dell’edi­toria mondiale. Ma ci sono gli «sblocchi» da rispettare. Non ho mai ben capito che cosa siano. Una trentina l’anno, decisi a gennaio dal commerciale della Rcs, socia di maggioranza di Marsilio. Uno ogni 15 giorni,a volte uno a settimana.L’ultimo a fine novembre. In libreria ci vai solo in quelle date, sempre di mercoledì. Mai due saggi, o due romanzi, o due gialli di­stribuiti insieme ( si cannibalizzerebbero a vicenda) e quindi per Il Vittorioso si sa­rebbe dovuto fare uno strappo alla rego­la, visto che per la saggistica della Marsi­lio le uscite erano già tutte coperte. E c’è da tener conto dello stoccaggio a magazzi­no e della distribuzione, che hanno la lo­ro tempistica prussiana. Ma poi: perché uscire con due me­si d’anticipo? Non lo sapevo neppure io. So so­lo che la notte, so­prattutto quand’è agitata, porta con­siglio. E quel con­siglio va seguito.

De Michelis ha il pregio di fidarsi. Dopo qualche giorno mi telefo­nò: «Forzando i tempi, potremmo uscire o il 24 no­vembre o il 1˚ di­cembre, non pri­ma. Scegli tu». Per carità, il 24 novem­bre. Il Vittorioso fre­sco di stampa - lo stesso che in bre­ve tempo sarebbe arrivato a 100.000 copie con cinque edizioni e che da doma­ni troverete in vendita nelle edicole abbi­nato al Giornale - era in viaggio verso le li­brerie quando l’11 novembre il Consiglio dell’Ordine nazionale dei giornalisti deci­se di confermare, pur riducendola da sei a tre mesi,la sospensione inflitta a Feltri dal­l’Ordine della Lombardia per il caso Bof­fo. Verdetto alla terza votazione: 66 con­tro 66. Come da regolamento, aveva pre­valso la soluzione più favorevole all’accu­sato. La sentenza del sinedrio degli scribi­mai visti nella giustizia ordinaria 132 giu­dici occuparsi tutti insieme di una sola per­sona­in realtà era attesa per gennaio. Es­sa invecchiava d’emblée 17 delle 264 pagi­ne del libro prim’ancora che fossero arri­vate fra le mani dei lettori. La premonizio­ne notturna di un mese prima cominciava ad avverarsi. Ma il vero patatrac doveva ancora arri­vare.

Roma, ore 17 del 1˚ dicembre 2010. Studi romani di Canale 5, al Palatino. Pun­tata di Matrix dedicata al Vittorioso, in li­breria da otto giorni. Nel salottino, dove fra canapè, bibite e thermos di caffè atten­do che cominci la registrazione del talk show condotto da Alessio Vinci, arriva Fel­tri. Baci e abbracci. Chiacchiere in libertà. All’improvviso, come se fosse la cosa più naturale di questo mondo, il direttore mi dice: "Sai tenere un segreto? Guarda che non ne è al corrente neppure mia mo­glie". E me lo chiedi? "Lascio Il Giornale". Scusa, credo di non aver capito bene. "Me ne vado, mi riprendo Libero". Ma sei tor­nato al Giornale da appena 15 mesi... "Ho ricevuto un’offerta irrinunciabile. Io e Maurizio Belpietro ci compriamo una quota del 10 per cento ciascuno, diventia­mo comproprietari della testata". Allora non me l’ero sognato! L’angoscia onirica,il sudore freddo,l’inspiegabile im­pulso ad accelerare i tempi di stampa: tut­to vero. A cominciare dalla copertina, nel­la quale Feltri reggeva fra le mani una co­pia del Giornale. Sarebbe durata meno di un mese. Certo non si poteva ordi­n­are al disegnato­re Dariush Ra­dpour di correg­gerla, sovrappo­nendoci il logo di Libero.

Volevo scappa­re via. Mi salvò l’ar­rivo in sala d’atte­sa di Franco Cali­fano, reduce da una diretta tv su non ricordo quali argomenti vene­rei­e malfermo sul­le gambe per i po­stumi di una rovi­nosa caduta lun­go lo scalone da cui nel 2006 l’ave­vo visto scendere con passo esitan­te nella sua villa di Acilia. Il dialogo sulla rottura delle tre vertebre del Califfo ebbe il sopravvento sui miei giramenti di testa. Mi sentivo un pugile intronato.

Detto fatto: 20 giorni dopo, all’antivigi­lia di Natale, Feltri era già tornato alla gui­da del quotidiano che aveva fondato die­ci anni prima. Il 3 giugno 2011 avrebbe la­sciato-Libero per la seconda volta e sareb­be approdato (per la terza) al Giornale co­me editorialista. Coerente con la risposta che mi aveva dato a pagina 204, là dove gli ricordavo che in lui a grandi infatuazioni fanno seguito rapidissimi disincanti e nel giro di sei mesi s’annoia di tutto e di tutti: «La ripetitività dopo un po’ mi stronca».
Ecco, stavolta è bastato aspettare me­no di sei mesi e la copertina del Vittorioso , con la nostra testata in bella vista, è ridive­nuta di stretta attualità. Perciò, se vi fosse capitato di acquistare il libro, vogliate considerare la presente intervista come un aggiornamento. Un pochino anche
un risarcimento. Comunque l’appendi­ce di un anno vissuto pericolosamente. Com’è nello stile di Vittorio Feltri.

Perché nello scorso dicembre hai ab­bandonato all’improvviso Il Giornale, dov’eri tornato da neanche due anni?
«Ero talmente avvilito per la sospensione inflittami dall’Ordine che ho sentito il bi­sogno di voltare pagina, di andarmene an­che fisicamente dal luogo dove stavo pa­tendo questa ingiustizia. Ho vissuto la sentenza come la rappresaglia di un tribu­nale speciale fortemente ideologizzato».

La giustificazione secondo cui i tre me­si­d’inattività forzata t’avrebbero fatto ammalare, e quindi eri costretto a tra­sformarti in editore di Libero perché la sanzione disciplinare dell’Ordine ti vietava di esercitare la professione di giornalista fino al 2 marzo 2011,è par­sa un po’ artificiosa, làsciatelo dire.
«È stata una reazione infantile, lo ammet­to. Come andare a consolarsi alle Seychel­les perché ti ha lasciato una donna o ti è morto il gatto.Non è che l’angoscia si can­celli mettendo 7.000 chilometri fra te e il dolore.
Mi sono illuso di ri­trovare a
Libero il posto dov’ero sta­to felice. Invece mi ha accolto un’atmosfera completamente diversa, non v’era traccia né della rappresentanza aziendale d’origi­ne né dello spirito pionieristico che ci aveva portato al successo. Ma la co­sa che più mi ha dato fastidio, al di là della sospensio­ne, è stata passare per falsario. “Fel­tri viene punito per aver scritto una balla sul diret­tore di Avvenire , costringendolo alle di­missioni”, è il ritornello che sento ripro­porre meccanicamente ancor oggi. L’ho detto e lo ripeto,e l’ha riconosciuto persi­no l’Ordine dei giornalisti: la notizia della condanna di Dino Boffo per molestie era vera. Vera! Inesatto fu solo un dettaglio, quello relativo al cosiddetto presunto “at­tenzionamento” da parte della questura di Milano. Ma per questo sfondone avevo già chiesto scusa a Boffo sia privatamente sia pubblicamente, sul Giornale ».

Un tribunale composto da 132 giudici è sicuramente molto speciale.
«Ma tu lo sai che mi sono salvato per il rot­to della cuffia? Era già stabilito: volevano confermarmi i sei mesi di sospensione. Sennonché nell’albergo Massimo d’Aze­glio di Roma, dove s’è svolto il processo, un giornalista del Sud, uno dei 132 che do­vevano giudicarmi, per ingannare il tem­po prima del dibattimento s’è messo a sfo­gliare un vecchio numero di Panorama .
E lì s’è imbattutto in una puntata nella mia rubrica Cane sciolto in cui descrivevo si­tuazioni che gli erano familiari. Be’,s’è tal­mente commosso che ha deciso di cam­biare opinione. È stato lui stesso poi a con­fessarmi il suo pregiudizio: “Sai, era tutto deciso,dovevo votarti contro anch’io.Ma dopo aver letto il tuo articolo non me la so­no sentita e mi sono schierato per la ridu­zione della sanzione a tre mesi”».

Quanto ti sono costati, in termini eco­nomici, i 90 giorni di purgatorio?
«Penso 150.000 euro, forse 200.000. Oltre a non percepire lo stipendio, ho dovuto so­spendere le rubriche su
Panorama e su
Monsieur
e le collaborazioni televisive. Non volevo offrire pretesti di alcun tipo ai miei persecutori. Sono contro l’Ordine dei giornalisti, l’ho sempre dichiarato, e mi batterò con ogni mezzo perché sia abo­lito. Ma finché una legge dello Stato ne pre­­vede l’esistenza, da buon cittadino mi sot­tometto. Fra l’altro sono ancora in ballo».

Sei ancora in ballo? Che vuoi dire?
«La condanna di primo grado ri­guardava due di­stinte vicende: sei mesi per il caso Boffo e due mesi per aver fatto scri­vere Renato Fari­na su
Libero ben­ché fosse stato ra­diato dall’Ordi­ne. In primo gra­do mi hanno irro­gato, come usa in casi del genere, la pena maggiore, sei mesi, per san­zionare entrambi gli addebiti. Nel­l’appello a Roma si sarebbero dovu­ti esaminare i due procedimenti. In­vece hanno di­scusso solo il pri­mo e congelato il secondo, che pende ancora sul mio capo come la spada di Damocle. Nel frattempo Farina ha vinto in Cassazione: non pote­vano radiarlo dall’Ordine essendosi già dimesso di sua spontanea volontà. Ma al­lora se non era un giornalista radiato, ben­sì un semplice cittadino, aveva il pieno di­rit­to di manifestare il proprio pensiero co­me sancito dall’articolo 21 della Costitu­zione. Dunque, di che m’incolpano?».

Mentre Il Vittorioso era in cottura avre­sti dovuto dirmelo che si profilava la possibilità di un ennesimo addio al Giornale , non credi? Se non altro avrei fatto disegnare una copertina diversa.
«Se l’avessi saputo, te l’avrei detto. Ma non lo sapevo nemmeno io. È vero che gli Angelucci, editori di
Libero , avevano co­minciato a farmi proposte allettanti già pochi mesi dopo che avevo traslocato al Giornale , però le avevo sempre respinte».

Chi ti cercò per offrirti il 10 per cento?
«Prima Giampaolo, uno dei figli, e poi an­che Antonio, il padre. La cosa più imbaraz­zante fu che quando annunciai per la se­conda volta alla proprietà del Giornale che me ne andavo, essendomi stata offer­ta dagli Angelucci una parte del pacchetto azionario, un intermediario molto vicino alla famiglia Berlusconi mi chiese: “Pos­siamo trattare su questa base del 10 per cento?”.In pratica mi veniva offerta la stes­sa quota nel Giornale . No, risposi, perché ho già dato la mia parola agli Angelucci».

Ma scusa, che te ne facevi del 10 per cento di Libero se la maggioranza restava saldamente in ma­no agli Angeluc­ci?
«Non è che se lavori in un giornale per il 10 per cento tuo e per il 10 per cento di Belpie­tro non conti proprio un cazzo, eh».

Quanto l’hai pagato quel 10 per cento?
«Il valore nominale delle azioni, non quel­lo di mercato: 22.000 euro».

E ce l’hai ancora?
«Attraverso l’avvocato Alessandro Muna­ri ho chiesto di sciogliere il rapporto. Era un contratto con cui la società s’impegna­va a tenermi per 10 anni. Sono tornato al
Giornale con una garanzia di cinque. Dun­que non l’ho di sicuro fatto per interesse ».

Che cosa non ha funzionato nel tuo ri­torno sulla tolda del quotidiano che avevi fondato nel 2000?
«Il direttore responsabile è Maurizio Bel­pietro. Con il quale, per carità, vado d’ac­cordissimo. Ma un’auto o la guidi tu o la guida un altro. Se lui tiene il volante e io impugno la leva del cambio, come si fa? Andiamo a sbattere».

Lo sapevi anche prima di ritornarci.
«Sì.Ma un conto è aver presenti le difficol­tà che cred­i di poter gestire e un altro con­to è l’impatto con esse. È un po’ come il go­verno Monti. Sulla carta sembra tutto bel­lissimo: andiamo d’amore e d’accordo, l’intesa è ampia, decidiamo le cose che fanno bene all’Italia. Per esempio? Abo­liamo le pensioni d’anzianità. Vaffancu­lo, ti dice una parte della maggioranza».

È strano che proprio tu, grande appas­sionato di ippica, non abbia tenuto conto dell’aforisma shakespeariano: «Se due sono in groppa a un cavallo, uno deve andare dietro».
«È una frase molto vera, fosti tu a dirmela, me la sono anche rivenduta in un’intervi­­sta, con Luca Telese del Fatto Quotidiano , credo. Non c’era niente di personale con Belpietro. Continuiamo a vederci a pran­zo. Così come non c’era niente di persona­le con Alessandro Sallusti quando un an­no fa lasciai Il Giornale . Anzi, fui io, prima che l’Ordine mi condannasse, a decidere di ritagliarmi il ruolo di direttore editoria­le a­ffinché lui diventasse direttore respon­sabile. Poi l’estate scorsa sono ritornato da editorialista e non da direttore editoria­le, e lì un po’ m’è sfuggito il motivo.Tant’è che a Porta a porta o in altri talk show mi presentano ancora come direttore edito­riale del Giornale . Io continuo a spiegar­glielo che non ho più questo ruolo, ma non c’è verso di farglielo entrare in testa».

Quando ti ho chiesto il motivo della tua seconda uscita da Libero , mi hai ri­sposto: «Con Belpietro ci siamo trova­ti nelle condizioni di quei due genti­luom­ini che davanti a una porta aper­ta fanno a gara su chi non debba entra­re per primo, “prego, passi pure”, “ci mancherebbe altro, dopo di lei”, e in­tanto viene notte...».
«È così. Ti faccio un esempio pratico di quello che accadeva a
Libero . C’era da scrivere il fondo. “Lo vuoi fare tu?”. “No, lo vuoi fare tu?”.Se dici: “Lo scrivo io”,pre­varichi. Se dici: “Scrivilo tu”, sembra che scarichi sull’altro».

E quindi come facevate? Alle bombe del cannon, bim bum bam?
«No, è logico che poi alla fine un accordo lo trovi. Ma ogni volta questo minuetto... Mi metteva a disagio.Tu dirai: “Che stupi­daggine!”. Lo so, però a me provocava fasti­dio lo stesso. Sono vecchio, viziato, abitua­to da 23 anni a fare il direttore, cioè quel cazzo che mi pare. E poi tieni conto che mi trovavo a casa mia, Libero l’ho fondato e portato al successo io, mica mia sorella».

Sul cavallo chi stava davanti e chi die­tro?
«Facevamo un po’ per uno. Che è anche peggio di stare sempre dietro».

I maligni sussurrano che le frizioni erano cominciate fin dal primo gior­no, quando non hai riavuto quella che era stata per dieci anni la tua stanza.
«Non è così. Io delle stanze me ne fotto».

Invece qui al Giornale la stanza che fu di Indro Montanelli te la restituiamo sempre.
«Sì. Quando nel giugno scorso sono torna­to in via Gaetano Negri per la seconda vol­ta, Sallusti mi ha fatto ritrovare il mio uffi­cio. Senza che gli chiedessi nulla. È stato un gesto che ho molto apprezzato».

In compenso non fu molto generosa la frase che pronunciasti nella confe­renza stampa di presentazione del ri­trovato sodalizio con Belpietro: «So­no andato via da un giorno e già Il Gior­nale mi sta sui coglioni».
«Questa è una cosa che... Madonna, non sai quanti me l’hanno rimproverata!Com­preso Mario Giordano, che ho assunto al
Giornale e che giurava di nutrire per me imperitura gratitudine. Nessuno s’è ac­corto che era una citazione scherzosa trat­ta da Un povero ricco , film del 1983 in cui Renato Pozzetto è un imprenditore osses­sionato dalla crisi economica, il quale su consiglio dello psicologo si traveste per un periodo da barbone in modo da adat­tarsi mentalmente a un’eventuale vita di privazioni. A un certo punto l’industriale esclama: “Sono povero da appena un gior­no e già i ricchi mi stanno sulle palle”. In­somma, se giocavi nel Milan e sei passato all’Inter, non fai il tifo per l’Inter? Un pro­fessionista diventa tifoso per contratto».

Sallusti ti rese la pariglia con uno Spil­lo in prima pagina: «C’è chi è pagato da Berlusconi e chi è pagato dai contri­buenti. Bisogna saper scegliere».
«Sì, ma aveva lavorato al mio fianco a Libe­ro quasi dal primo giorno e c’è rimasto fi­no al 2008 come direttore responsabile, quindi significa che anche lui è stato paga­to dai contribuenti. Sono argomenti pole­mici che si usano, ma non scalfiscono. Del resto, come tu sai, tutti i giornali rice­vono soldi dallo Stato sotto forma di scon­ti sulle tariffe per le spedizioni postali in abbonamento, agevolazioni telefoniche ed elettriche, in passato persino rimborsi per l’acquisto della carta».

Sallusti ti rinfacciò d’aver cambiato bandiera anche in politica. Parlando a Cortina d’Ampezzo, avevi dichiara­to che Berlusconi non aveva i numeri per diventare capo dello Stato e che sa­rebbe stato addirittura meglio se non si fosse ricandidato neppure a pre­mier.
«La seconda cosa non l’ho detta. Anche lì si trattava di una frase ironica. Mi avevano chiesto se il Cavaliere potesse ambire alla presidenza della Repubblica. Certamen­te, risposi, però non riesco a immaginar­melo mentre rincorre le ragazze nei saloni del Quirinale, inseguito dai corazzieri nu­di che vogliono partecipare al bunga bun­ga. Putiferio. Tutti a riprendere la spirito­saggine come se fosse un giudizio politi­co. Il Cavaliere mi telefonò.Rideva: “So be­nissimo come vanno queste cose. Basta che io faccia una battuta e subito i giornali la riportano in modo tale da scatenare una polemica basata sul nulla”».

Rivedremo mai più Berlusconi presi­dente del Consiglio?
«Mai dire mai. È l’uomo più combattivo che conosca, dotato di un ottimismo ai li­miti dell’incoscienza. Per 17 anni hanno scritto che sarebbe morto l’indomani e in­vece se n’è andato sulle proprie gambe. Mario Monti non durerà quanto lui, que­sto è poco ma sicuro».

Per spiegare il tuo ritorno al Giornale , con me hai tirato in ballo la sconfitta elettorale del Cavaliere alle ammini­s­trative di maggio e la disfatta di Mila­no: «Di solito si sale sul carro del vinci­tore. Io ho voluto salire su quello del perdente».
«Confermo.L’ini­zio della fine è sta­to il tradimento di Gianfranco Fini, che ha costretto il governo a chiede­re una fiducia al giorno. Berlusco­ni doveva andare al voto prima che scoppiasse il casi­no dell’euro».

Intervistato da Aldo Cazzullo sul Corriere del­la Sera , l’ex pre­sidente d­el Con­siglio ha lascia­to chiaramente intendere che la linea tenuta in questi anni dal Giornale e da Libero gli ha arrecato più guai che benefici. Ce l’aveva con te?
«Quando Berlusconi dice che non detta la linea del Giornale, è sincero.Al momen­to di ogni mia assunzione con l’editore ho concordato quale dovesse essere il posi­zionamento politico della testata. Una co­sa molto generica. I contratti nel nostro mestiere fanno testo. Dopodiché mi sono sempre regolato secondo coscienza, co­me d’altronde fa oggi Sallusti, senza mai interpellare né Paolo né, tantomeno, Sil­vio. E loro non hanno mai intralciato il mio lavoro. Neppure una volta mi sono preoccupato di compiacere prima Forza Italia e poi il Pdl, che spesso, attraverso va­ri leader, hanno manifestato irritazione nei confronti del nostro quotidiano. Il di­rettore di un giornale è consapevole dei ri­schi che corre, incluso quello d’essere li­cenziato. L’editore infatti ha un solo pote­re: cacciare il responsabile se non lo consi­dera più di suo gradimento. Certi rappor­ti sono fiduciari. Se viene meno la fiducia, meglio romperli».

Si vocifera che il tuo secondo, preco­c­issimo divorzio da Libero sia stato de­terminato dalla scoperta che nei bi­lanci mancavano all’appello 18 milio­ni di euro di contributi per l’editoria, bloccati dallo Stato perché la famiglia Angelucci non ne avrebbe diritto.
«Non mi ha fatto piacere, ovvio, ma non è stata quella la causa. Mi avevano assicura­to che il ricorso al Tar contro la decisione dell’Autorità per le garanzie nelle comuni­cazioni sarebbe andato a buon fine».

Se il Tar avesse dato ragione al­l’Agcom, col tuo 10 per cento di azioni saresti stato chiamato a sborsare 1,8 milioni di euro per ripianare il buco.
«Il ricorso è ancora pendente. Comunque gli Angelucci s’erano impegnati a coprire tutto loro. Non posso che parlarne bene».

Se «con Berlusconi è come con le don­ne, dopo un po’ di tempo ti stanchi»,co­me affermi nel Vittorioso rievocando la prima uscita dal Giornale nel dicem­bre 1997, chi garantisce ai lettori che non cambierai idea un’altra volta?
«Non ho mai cambiato idea. È la realtà che cambia. Come faccio a garantire? Non è che mi sono fatto prete, non ho dato i voti».

Con questi avanti e indrè non credi d’averli un po’ stufati, i tuoi lettori?
«Sì,il sospetto m’è venuto,anche se nessu­no mi ha inviato lettere d’insulti o di biasi­mo. Ai lettori di Libero era difficile spiega­re perché me ne andavo, e infatti non sono riuscito a spiegarlo. Molti si sono arrabbia­ti. Li capisco.Mi sono comportato come Jo­sé Mourinho q­uando ha lasciato l’Inter do­po aver vinto la Champions League. I tifosi ci sono rimasti di palta».

Il mensile Prima Comunicazione ha scritto che il tuo effetto magico sulle ti­rature è svanito.
«Al Giornale non sono tornato come diret­tore, quindi come fanno a lanciarsi nelle comparazioni? Quando io e Sallusti en­trammo qui, il deficit ammontava a 22,7 milioni di euro. Quest’anno sarà intorno ai 3 milioni. L’87 per cento in me­no
».

T’aspettavi che Il Vittorioso avesse così tan­to successo?
«Assolutamente no, pensavo che arrivasse a 25.000 copie, non certo a 100.000».

Enoe Bonfanti, tua moglie, che commenti ha fatto dopo aver­lo letto?
«Ha trovato qual­cosa da ridire sul titolo: “Sei il solito esagerato”».

Mentre presen­ta­vamo Il Vitto­rioso al Circolo dei lettori a To­rino, ti sei la­sciato sfuggire che due o tre frasi ma­gari era meglio se non le avessi pro­nunciate.
Quali?
«E chi cazzo se le ricorda, scusa. Io archi­vio in fretta. Forse mi riferivo a qualche vaffanculo di troppo. Sebbene pure in questa intervista... Quanti ne avrò detti?».

Compresi gli ultimi?Tre«cazzo»e due «vaffanculo», se non ho contato male.
«Be’,è quasi oxoniana, come media. Ma­gari vedi di toglierli, va’, che è meglio».

Non è che adesso stai tramando qual­­cos’altro, vero?
«No, no, che cosa vuoi che trami. Non è il momento. Alla mia età, poi. Sono già 68».

Lo so.
«Eppure mi sento come vent’annifa, gra­zie al cielo non ho problemi di resistenza. Lavoro più di un tempo e faccio meno fati­ca. È grave, tu che dici?».

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