Politica

L’uomo che vende buone azioni ai ricchi

(...) gente da aiutare, un angelo custode con le sembianze di un vecchio rimbambito e un George Bailey che si chiama Alfredo Villa. Non ha figli che lo aspettano attorno all’albero addobbato, perché s’è sempre ritenuto indegno di diventare padre. Però fra Thailandia, Filippine, Messico e Guinea Bissau ne conta 200, tolti dalla strada o salvati dalla morte, che adesso lo chiamano papà. Non è alto e dinoccolato come James Stewart, semmai il contrario. Però questa notte vorrebbe fare gli auguri a tutti quelli che incontrerà per strada, compreso il cinematografo e l’emporio, arciconvinto che la vita sia proprio così, meravigliosa. L’aspetto più sorprendente della faccenda è che il copione di questa stessa vita aveva previsto per lui la parte del milionario Potter, il cinico finanziere che invecchia malamente, disobbedendo alle leggi del cuore, fino a spingere George Bailey sull’orlo del suicidio.
A differenza del signor Bailey, gran sgobbone nella società di costruzioni del padre, Alfredo Villa opera in Borsa sulla piazza di New York ed era venuto al mondo con una certezza: «Che non avrei mai avuto bisogno di lavorare». Glielo suggerivano i suoi natali: il padre Giuseppe aveva un’avviata industria di essenze e aromi; la madre Fausta era un’ereditiera, nipote di Francesco Peloni, il farmacista di Bormio che nel 1875 inventò l’amaro Braulio. Gente molto benestante, insomma. E molto importante: suo fratello Marco è procuratore pubblico aggiunto del Canton Ticino; il cugino di sua madre, Giuseppe Tarantola, è il giudice che nel 1993 aprì la stagione dei processi di Mani pulite e chiamò a deporre in tribunale per le tangenti Enimont gli ex segretari della Dc e del Psi, Arnaldo Forlani e Bettino Craxi.
Va detto, a proposito d’igiene delle mani, che il grosso dei suoi soldi Villa l’ha accantonato nel 1999 facendo quotare al Nasdaq, il listino elettronico di Wall Street, la società svedese Private media group, leader mondiale negli intrattenimenti hardcore per adulti (pay tv, siti e chat a luce rossa, Dvd e riviste porno, gadget erotici). Ma non è per riscattarsi – guai a dargli del convertito – se oggi ha deciso d’investire larga parte di questa ricchezza nella creazione di un’opera buona che non assomiglia per niente alle opere buone tanto reclamizzate a Natale. Si tratta di un fondo d’investimento, H4H Alternative Spc, il primo al mondo in cui i gestori rinunciano interamente alla loro commissione e trattengono al sottoscrittore l’1,5% annuo per versarlo in beneficenza. Dove H4H sta per Homes for hope, case per la speranza, associazione caritatevole di diritto svizzero (una Ong, organizzazione non governativa), anche questa fondata da Villa. Il fondo ha sede alle isole Cayman, paradiso fiscale nel Mar delle Antille. «Non avrebbe molto senso pagare le tasse sul bene, le pare? È lo stesso motivo per cui non abbiamo né dipendenti né uffici, solo il sito Internet, www.homes4hope.net, in modo che nemmeno un centesimo vada sprecato».
Non è un fondo comune qualsiasi, bensì un hedge fund che insegue rendimenti elevati attraverso speculazioni ad alto rischio sul mercato azionario. Da maggio ha già raccolto 10 milioni di euro e ha guadagnato la bellezza del 22%. «Perché siamo bravi e perché è una cosa buona». Le referenze dello gnomo ticinese sono ineccepibili: è consigliere d’amministrazione e azionista della Gabbrielli & Associati di Milano (compravendite di aziende e consulenze bancarie); detiene il 12% di Mediapolis Spa, una Gardaland tecnologica che sorgerà a Ivrea e sarà il più grande parco a tema italiano; possiede il 20% di Brainspark Ltd, società quotata alla Borsa di Londra.
Alfredo Villa nasce a Milano nel 1961. Negli anni di piombo la famiglia si trasferisce a Lugano per sottrarsi ai sequestri di persona e al terrorismo. Quando ha 13 anni, gli muore il padre. «Mamma non si occupava di economia, era proprio negata. Dopo il funerale, regalò all’autista la De Tomaso Deauville di papà, non sapendo che farsene. Una benedizione, le sono ancora grato per questo: senza il suo disinteresse per il denaro, io sarei tuttora condannato ad accumularne».
Invece?
«A 16 anni scopro che siamo in bolletta. Lo capisco dai precetti esecutivi che ci notificano a raffica. Me ne vado di casa con Barbara, la mia ragazza. A Parigi dormiamo sotto i ponti della Senna. Poi la porto in Costa Azzurra, a Cagnes-sur-Mer, dove andavo da piccolo con mio padre: lì c’è l’ippodromo e io amo i cavalli. A Milano passiamo le notti sulle panchine della stazione centrale. I carabinieri ci fermano e ci rispediscono nel Canton Ticino. Un conoscente ci mette a disposizione una mansarda a Lugano».
Generoso.
«Dipingiamo le pareti di nero. Mi metto a suonare la batteria nei locali notturni col mio amico Beat Wernli, che oggi è presidente della Banca del Gottardo alle Bahamas. Per due o tre anni mangiamo solo pasta e patate, mi viene l’avitaminosi, perdo due denti. Ma con Barbara sto bene. La vita è meravigliosa, il denaro irrilevante».
E poi?
«Mi dico: devi trovarti un lavoro vero. Operaio alla Campari di Lugano, col compito di mettere le bottiglie nei cartoni. Per non spaccarmi la schiena, mi porto uno sgabello da casa: me lo vietano. Non resisto. Mi trasferisco al supermercato Innovazione, addetto alle pulizie. Dalle 18 alle 20, il minimo indispensabile. Il resto del tempo è per Barbara. Il mio capo è uno jugoslavo crudelissimo, grida sempre, deve per forza mostrarsi scortese, sia che lavi i pavimenti bene sia che li lavi male. Ma io continuo a ritenere che la vita sia bellissima e non ammetto che qualcuno tenti di dimostrarmi il contrario. Perciò mi licenzio».
Fosse così facile, sa quanti si licenzierebbero?
«Si può, mi creda. Il bello di questi ultimi quattro anni è che ne ho persi 30 e sono tornato felice come quando ne avevo 16. Non c’è motivo d’arrendersi al trascorrere del tempo».
Vada avanti.
«La storia con Barbara finisce. Incontro Silvia. Suona il flauto traverso nella Civica filarmonica di Lugano. Bella, bionda, perbenino. Si è sempre attratti dal proprio opposto. E Silvia dà una sterzata alla mia vita. Chiedo al giudice Tarantola se può pagarmi gli studi. Accetta. Mi presento come privatista all’esame di maturità al liceo linguistico Grazia Deledda di Genova. Passo gli scritti, italiano e francese, con una certa facilità. L’orale è su tutte le materie. Non ho studiato. Un po’ mi assiste la cultura orecchiata in famiglia. I commissari di latino e matematica m’insultano: “Buffone, chi crede di prendere in giro?”. Avete ragione, ma il diploma mi serve per passare di categoria in fabbrica, cerco d’impietosirli. Mi spediscono fuori con il minimo, 36, facendomi giurare che non andrò all’università».
E torna in fabbrica.
«Macché, corro a iscrivermi all’università di Ginevra. Economia politica. Se c’entra la politica, è roba facile, penso. Invece è economia pura. Durissima. Siccome sono indigente, mi assegnano una borsa di studio, 15.000 franchi, che io sperpero subito per comprarmi il Menhir, una barca a vela di sei metri. Alla seconda uscita sul lago di Lugano l’ho già bell’e affondata. Al corso siamo in 32. La crema. Dopo la laurea, gli istituti di credito ci vengono a cercare. Mi assume la Banca della Svizzera italiana, che mi manda a Chicago, New York e Los Angeles a imparare. Negli Usa conseguo il titolo di chartered technical analyst, il professionista capace d’interpretare i grafici e dirti dove andrà il mercato. Divento agente di cambio. Passo alla Soginvest banca come assistente del direttore generale. Nel 1983 compro il mio primo cavallo. Mi sembrava necessario. In famiglia li abbiamo sempre avuti, i cavalli. M’iscrivo alla Bocconi, così ho la scusa per venire a San Siro a vedere le corse ippiche».
Nobile motivazione.
«Fondo la Givigest, gestioni patrimoniali. Mi specializzo nel far debuttare al Nasdaq le piccole società americane e nel moltiplicare i capitali che gli italiani trasferiscono in Svizzera. Valigie di soldi portate dagli spalloni, non mi chieda come, loro sanno quali sono gli orari buoni alla frontiera. Va tutto bene. Lo scopo è guadagnare».
Silvia era d’accordo?
«Con Silvia ho chiuso. Ora sto con May, una scozzese conosciuta a Ginevra. La sposo, ma dopo tre anni divorziamo».
Perché?
«Lei voleva dei bambini, io no. Credo che Dio mi abbia tenuto lontano da moglie e figli per cavar fuori da me l’irresponsabile che sono oggi. Un prete mi ha detto che metto in pratica le virtù deboli. Ho cercato di migliorarmi, ma non ci sono riuscito. L’amore vero, quello per la famiglia, prima o dopo genera dolore e io ho una repulsione innata per la sofferenza, la fatica. Faccio quello che mi costa meno in termini emotivi. È più facile avere 200 bambini in giro per il mondo che un figlio tuo. Non c’è alcun merito in Homes for hope».
E dopo il divorzio da sua moglie May?
«Arriva Cristina. Fra noi è durata fino al 1994. Viviamo ancora nella stessa casa, camere separate. Non posso staccarmi da lei. Darei la mia vita in questo istante, per Cristina. A 40 anni ho venduto tutto e ci siamo messi ad allevare cavalli da corsa a Biella».
Ma poi è tornato alla finanza.
«Per paura della povertà».
Quanto guadagnava all’anno?
«Un mese potevo avere 20 milioni di euro e il mese dopo ritrovarmi con tre».
Facciamo al mese, allora.
«Vogliamo dire 40.000 euro? Oppure 50.000? Ma per vivere me ne bastavano 3.000. A parte la droga, ho avuto tutto quello che un uomo può desiderare di comprare col denaro, senza alcuna preclusione morale. Ero convinto che m’avrebbe reso felice. E quindi Porsche e Jaguar cabrio, ville in Costa Azzurra, vacanze esotiche, ragazze russe. Non sto parlando di prostitute raccolte per strada, ma di amanti fisse d’alto bordo. Non conosco uomo, fra quelli che guadagnano tanto, che non mantenga almeno due russe».
Ed era felice?
«No. Al massimo divertito. Un periodo buio, buissimo».
Che cosa non andava?
«Ufficialmente niente. Dio è un papà che guarda giù, vede il figlio che gioca come uno stupidino e sospira: “Gli passerà”. Non so come spiegarlo... Non c’è peccato, non c’è redenzione. C’è solo questo amore straordinario che lei può percepire o non percepire. Non rinnego nulla del mio passato. Però a 40 anni ho avuto la netta sensazione che sarei schiattato: o per infarto, o per malattia, o per morte sociale o per stile di vita senza ritorno. Ero disperato».
Come ne è uscito?
«Mi sono innamorato di una ragazza di Lugano che mi ha riportato ai miei 16 anni. E ho incontrato per caso un santo, don Luigi Longhi, parroco dell’Aravecchia a Vercelli. Lui recupera i drogati e io volevo assumere qualche stalliere per il mio allevamento. Perciò sono andato a trovarlo. Grasso, barbone, capelli lunghi, zoccoli, privo di tutto, mangia gli avanzi che gli portano i supermercati, però vive circondato di opere d’arte ricevute in dono. Illustro, spiego, mi serve qui, mi serve là, e lui niente, non mi ascolta. Rincoglionito totale. Poi all’improvviso si mette a parlare di amore con una semplicità e un’evidenza da lasciarmi senza parole. Tre frasi in tutto, non me le ricordo nemmeno. Ha cambiato la mia vita. Dio è amore. Il bello esiste e cura. L’amore esiste e cura. E quindi di che ti preoccupi?».
Guardate gli uccelli del cielo.
«Credevo che la mia scontentezza derivasse dal non essere una persona seria. E questo vecchio prete mi scuote: “Serio o non serio, bello o brutto, ricco o povero, Dio ti ama per quello che sei. Perciò ringrazia e canta”. Don Luigi canta, canta sempre. È la straordinarietà del volersi bene, indistintamente, senza giudizio. Allora guardi il mondo, questo mondo, e ti appare una meraviglia, è tutto bellissimo. Non serve che San Paolo cada da cavallo».
Di conseguenza?
«Mi metto anch’io a fare il don Luigi. Mi porto a casa dieci ragazzi, tossici, matti, un po’ di tutto. Compro una cascina, fondo la Settembre onlus. Ma non funziona. Non può funzionare: io non sono don Luigi e non ho il suo carisma. Perciò decido di rivolgermi al mondo che meglio conosco: i ricchi. Perché i miliardari danno così poco?».
Non saprei. Aridità d’animo?
«Perché si sentono giudicati da chi va a chiedergli la carità. Invece bisogna parlargli nella loro lingua, dimostrargli che la generosità può essere un business, non uno scialo. Sono o non sono un fiduciario finanziario? Per legge devo curare i loro interessi. Gli spiego che non c’è altra soluzione per essere felici che desiderare la felicità altrui».
In questo modo quanto riesce a strappargli?
«Se doni stai meglio, ti liberi dalla schiavitù del possesso. Be’, io voglio liberarti ben bene, per cui la donazione minima è di 50.000 franchi svizzeri. In compenso sei tu a dirmi dove costruire la casa della speranza. Io non mangio nella torta del sociale, non credo nei progetti sostenibili, nel commercio equo e solidale, in quelle scemate lì. Quindi non devi scucire solo perché mi tolga dai piedi».
Quante case ha già aperto?
«Sei a Bangkok in Thailandia per ragazzi abbandonati o figli di prostitute e un’altra sta per sorgere a Phuket per gli orfani dello tsunami, una a Naga nelle Filippine per le adolescenti abusate, una a Puebla in Messico per i bimbi di strada. Tutte residenze bellissime. Le costruisco in località turistiche, perché è nel confronto con noi occidentali che i poveri si sentono ancora più poveri. In ognuna c’è una stanza per il donatore, che può in qualsiasi momento venire a dormirci e a controllare di persona come sono stati spesi i suoi quattrini. In Guinea Bissau abbiamo costruito un ospedale pediatrico con 60 posti letto. A Masserano, nel Vercellese, ho individuato una villa del ’700: voglio ricoverarci i malati terminali».
È vero che ha investito un milione di euro dei suoi risparmi in Homes for hope?
«Più della metà di quello ho».
E se lei si stufa e l’associazione chiude?
«Per statuto la proprietà passerebbe ai padri del Pime, alle suore francesi del Buon Pastore o agli scolopi, ai quali le case sono affidate in comodato uso. Avevo pensato di farmi monaco anch’io, ma non è il mio mestiere».
In che modo scova i donatori?
«Non ho l’umiltà di andare a chiedere. Devono cercarmi loro. Sono ancora stupidamente orgoglioso».
E i beneficiari?
«Ieri ho accompagnato un’amica a fare un delicato esame alla clinica Columbus, dove sono nato nel 1961 da bambino ricco. In ambulatorio ho trovato per caso il bollettino di un certo padre Daniele da Samarate, frate cappuccino che sta fra i lebbrosi a Belem do Pará, in Brasile. Adoro pensare che sia un segno della provvidenza. Il titolo diceva “Cercasi casa”. Gli ho già scritto. Potremmo mettergli a disposizione tra i 50.000 e i 100.000 dollari».
Come la giudicano i suoi colleghi?
«Bravo. Ma un po’ pazzo. Mi vogliono bene come si vuol bene a un bambino scemo».
Con chi passerà il Natale?
«Con Cristina. Detesto le vacanze, detesto le feste. La notte di Capodanno vado a letto».
Quali pensieri le suggerisce il fatto che Gesù non sia nato in una casa, ma in una grotta?
«Non ci avevo mai pensato. È una domanda carina, molto carina. Mi pare che abbia voluto schierarsi fin dalla nascita, le pare? Lo sa chi mi piacerebbe essere in paradiso, ammesso che riesca a entrarci?».
Chi?
«Il cane. È dentro. È in adorazione del padrone. Qualcosa dalla mensa casca per terra. Ha risolto tutti i suoi problemi».
Ma lei perché fa questo? Per non sentirsi in colpa? Per sentirsi bene? Per amor di Dio? Perché?
«Per quello che lei ha detto. Se fosse anche per amor di Dio, sarebbe bellissimo».
Stefano Lorenzetto
(358. Continua)
stefano.

lorenzetto@ilgiornale.it

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