Cronache

L'arte è il nuovo affare della mafia

Vasi, dipinti statue: il business sui beni artistici è il terzo dopo droga e armi, 150 milioni di euro all'anno Ma nessuno è riuscito a incastrare i boss che controllano i traffici

L'arte è il nuovo affare della mafia

È il mistero dei misteri della criminalità italiana: una sorta di quarta mafia che non è Cosa nostra, non è la 'ndrangheta e non è nemmeno la camorra ma che fa i suoi affari nei territori gestiti dalle cosche. Sembra un paradosso, o se si preferisce un rompicapo investigativo, ma questo è il dato che emerge dalle molte inchieste sul saccheggio sistematico dei nostri beni culturali. Un disastro che ha il suo epicentro nel Meridione ma in realtà si estende a tutto il Paese. L'università di Princeton ci ha fatto i conti in tasca e ha estratto una verità terribile: dagli anni Settanta un milione e mezzo di reperti archeologici sono stati scavati clandestinamente ed esportati illegalmente. Il giro d'affari, secondo un'elaborazione dell'Osservatorio Internazionale Archeomafie in collaborazione con il Centro Studi Criminologici di Viterbo, è di 150 milioni l'anno e ha coinvolto, in quasi mezzo secolo, 10mila persone. Non solo, i danni sono irreversibili o quasi: solo il 30 per cento delle opere trafugate negli ultimi trent'anni è stato recuperato. Vasi, anfore, statue, monete, tombe, dipinti. È un mondo intero che ha resistito millenni per volatilizzarsi poi sotto i nostri occhi. Questi i numeri di una guerra che ha la sua prima linea a Sud di Roma, particolarmente in Campania, la regione con più siti, e viene combattuta dalla magistratura e dalle forze dell'ordine. Tante le indagini che spesso si concludono con manette e perquisizioni, ma quando si fa il punto su ladri, tombaroli e ricettatori ecco che ci si ferma fatalmente fuori dal perimetro delle organizzazioni di stampo mafioso. Anche se siamo nel cuore della Sicilia o a Pompei o peggio ancora nel Casertano, in un territorio dove la camorra comanda da sempre.

Le inchieste si fermano un passo prima. Portano a galla i diversi livelli di organizzazioni ben strutturate, con varie funzioni, ma senza il rapporto organico con i clan. Pare impossibile ma questa è la realtà, al di là dei luoghi comuni, delle suggestioni, delle teorie. Certo, il business è ricchissimo. Un piatto in cui mangiano in tanti, un piatto che per importanza è il terzo sulla tavola criminale, dopo il commercio della droga e il traffico di armi. Un fiume di denaro, un'attività incessante su tutto il territorio nazionale e una pressione sempre più forte sulle aree più fragili del Paese. Ma la prova che siano i boss e i loro picciotti a gestire queste attività non c'è, non c'è quasi mai. Ci sono i tombaroli, e poi i ricettatori, i trasportatori e perfino i restauratori; ci sono gruppi ben affiatati e con il know how necessario per lavorare a 360 gradi: scoprire il prodotto, chiamiamolo cosi, nascosto sotto terra come il tartufo di Alba e consegnarlo alla fine nelle mani di generosi collezionisti sparpagliati in mezzo mondo. Ma Cosa nostra e la camorra restano sullo sfondo, come un grande punto di domanda. Se ne intuisce la presenza, ma, almeno finora, il passaggio diretto non è stato provato.

E se si chiede alle autorità che vigilano su questo devastato e inarrivabile tesoro, si otterranno sempre le stesse risposte: la Procura nazionale antimafia e i carabinieri del Nucleo tutela del patrimonio alzano le mani. Ci sono i sospetti, i soliti sospetti verrebbe da dire parafrasando il titolo di un celebre film, mancano le prove.

UNA CATENA DI ESPERTI

La procura di Santa Maria Capua Vetere conduce in due riprese, fra il 2011 e il 2015, un'attività investigativa molto importante per colpire i trafficanti. Tutto comincia quattro anni fa, quando un tombarolo perde il berretto. Sembra un dettaglio ma quel cappello diventa per i militari il filo d'Arianna che li porta a sgominare un'organizzazione assai ramificata. Vengono arrestati cinque tombaroli e, sorpresa, si scopre che sono tutti di Casal di Principe che è la capitale dell'impero dei Casalesi. Saltano fuori oltre seicento reperti. Quest'anno con l'operazione Dedalo arriva una nuova tornata di arresti: ben diciotto. Ci sono i tombaroli, un'intera batteria proveniente questa volta da Mondragone, altro territorio schiacciato dalle famiglie di Gomorra, poi ci sono i ricettatori. Se il tombarolo è un mestiere che si tramanda spesso di padre in figlio, il ricettatore, spiegano al Giornale gli investigatori, può essere collocato a vari livelli: c'è quello che coordina una squadra di «tute blu» della criminalità, poi ce n'è un altro, su un gradino superiore, con le antenne proiettate verso il Nord Italia e magari con proiezioni in alcuni Paesi europei e poi ci può anche essere il grande ricettatore di caratura internazionale. Quello che piazzerà il vaso, l'anfora o la moneta in Spagna o negli Stati Uniti, magari nell'abitazione di un facoltoso collezionista con il pallino dell'antichità.

Dedalo è una miniera inesauribile: vengono ritrovati circa 1500 pezzi. Compreso il vaso di un artista di Paestum del quinto secolo avanti Cristo di cui conosciamo il nome perchè firmava le sue opere: Assteas. È un pezzo che da solo vale tutto lo sforzo notturno dei tombaroli che con l'aiuto di sonde artigianali ma efficaci, gli spilloni, tastano il terreno alla ricerca dei tesori sepolti.

BOSS DIETRO LE QUINTE

E si scopre anche che da una villa di Pompei si è scavato, sottoterra, fino a raggiungere la città antica e preziosi affreschi che sono stati strappati e portati via. C'è di tutto nel grande contenitore di Dedalo ma manca, ahimè, la prova che la procura sperava di trovare: la camorra è estranea alla banda. Strano, perché l'organizzazione aveva tutte le risorse necessarie per lavorare e lavorare bene: anche i trasportatori, per portare lontano merci così particolari e fragili; anche i restauratori, per restituire splendore a materiali consumati dal tempo; anche i falsari, perché i criminali, ingolositi dal business, non disdegnavano di infilare qualche patacca nel sontuoso pacco confezionato per il cliente americano o spagnolo. Tante professionalità, molte braccia e teste per raggiungere lo scopo, un sistema complesso, ma nessun segno tangibile della presenza sulla scena dei clan. E allora Tsao Cevoli, archeologo e saggista, coglie una sorta di contraddizione: «Se non è camorra, che cosa è? Si è mai vista una criminalità organizzata in grado di affiancare quella di stampo mafioso nel Casertano o nel Napoletano?».

Domande scomode che al momento restano senza risposta.

Ma nello stesso gorgo si infila, centinaia di chilometri più a Sud, pure l'indagine ribattezzata Demetra. Siamo nel cuore della Sicilia, pochi mesi fa. Questa volta non ci sono gli arresti ma lo schema è sempre lo stesso. Una ventina di persone indagate per associazione a delinquere, un migliaio di frammenti o pezzi di epoca classica restituiti alla comunità, la solita rete a più livelli: i tombaroli e poi i ricettatori, con affaccio questa volta sul Nord Italia. Professionisti inseriti in un mondo circoscritto e con relazioni importanti, tecnici che da una vita bazzicano il mondo dell'arte con i suoi riti, i suoi tic e le montagne russe di un mercato, dove un solo pezzo può valere un'intera campagna di scavi.

VERO E TAROCCO

Il network criminale ha sempre le stesse caratteristiche e anche questa volta ecco in azione i falsari che per alzare la posta hanno inserito nel circuito, accanto agli originali, anche clamorosi falsi. Almeno ottocento monete taroccate, mescolate sapientemente a quelle arrivate dall'epoca greca e romana. I carabinieri trovano addirittura 900 conii, divisi fra due laboratori. Ma ancora una volta Cosa nostra non c'è. O se c'è è rimasta acquattata, invisibile e ben mimetizzata dietro le attività del gruppo criminale.

Le indagini vanno avanti e gli investigatori promettono nel tempo nuovi passi in avanti. Forse clamorosi. Forse fra qualche mese i carabinieri riusciranno a trovare quel collegamento che appare a molti logico e per qualcuno è scontato ma nei fatti si nasconde chissà dove. Forse si scoprirà che i tombaroli e i ricettatori pagano il pizzo agli esattori di Cosa nostra o, chissà, appartengono a qualche famiglia del più vicino mandamento. E seguono le direttive dei boss. Per ora dobbiamo accontentarci di una realtà più modesta e forse ancora più inquietante: c'è una quarta mafia, insediata nelle terre in cui si sono arroccate le tre principali organizzazioni criminali italiane.

È la quarta mafia a spogliare pezzo dopo pezzo il patrimonio culturale e artistico di questo sfortunato Paese.

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