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L'arte di farsi da parte? Bini Smaghi la ignora

Da giugno il governo chiede le dimissioni dal board della Bce. Ma lui non ci sente. Ben sapendo che così mette l'Italia contro la Francia

L'arte di farsi da parte? Bini Smaghi la ignora

A mia memoria, la pervicacia di Lorenzo Bini Smaghi è senza precedenti per un pubblico funzionario. L’economista rappresenta l’Italia nel board della Bce dal 2005. La carica scade nel 2013. Ma con la nomina di Mario Draghi alla successione del presidente francese Jean-Claude Trichet si è creata un’anomalia: sui sei posti nel Comitato esecutivo, l’Italia ne ha due, la Francia nessuno. L’accordo fatto dal Cav con Sarkozy, in cambio del voto a Draghi, erano le dimissioni anzitempo di Bini Smaghi e il subentro di un francese.

Lorenzo invece da quell’orecchio non sente. Da giugno, punta i piedi nonostante il governo gli abbia chiesto formalmente di non creare tensioni con la Francia. Fino a ieri resisteva per mercanteggiare la sua poltrona con quella di governatore di Bankitalia. Ma lo scambio - quasi il ricatto - era talmente plateale che la politica si è ribellata. Primo a mettere il veto sul suo nome è stato un indignatissimo Napolitano. Così, Bini Smaghi ha ottenuto solo di sconvolgere la corsa al vertice di Bankitalia facendo vincere l’outsider Ignazio Visco, contro i due favoriti, Saccomanno e Grilli. Quanto a lui, è rimasto con un palmo di naso. Ora continua nel braccio di ferro contro le autorità del suo Paese sperando in vantaggi né chiari, né in vista.

In punto di diritto, Lorenzo è in una botte di ferro: lo statuto Bce non prevede la rimozione, ma solo dimissioni volontarie. Dal lato, diciamo così patriottico, è invece una frana. Tutti gli incarichi ricoperti nei suoi 55 anni di vita sono di natura pubblica, dai due lustri in Banca d’Italia, ai sette anni al Tesoro. Idem all’estero - Fmi e Bce - dove è entrato per input politico-governativo. Nella stragrande maggioranza delle volte, non è che abbia vinto concorsi, sia stato cooptato, strenuamente voluto, desiderato o supplicato. No, si è seduto su splendide poltrone - come quella Bce - in nome dell’Italia e su spinta del Sinedrio. Che ora faccia repubblica a sé e non riconosca di essere, oggi come ieri, pedina di un gioco complessivo conferma che il sistema Italia fa acqua da ogni parte. Anche quando a rappresentarla è un uomo di valore e un privilegiato tenuto fin qui in palmo di mano.

Ripeto: la circostanza è inedita. Tempo fa, ci fu il caso di Riccardo Villari, il senatore che resistette un mesetto da presidente sfiduciato della Vigilanza Rai. Ma perlomeno lui era stato eletto e si trattava di una bagattella. Questa è una faccenda internazionale che sta pesantemente deteriorando i rapporti tra Cav e Sarkò. Né si capisce a quali traguardi punti il testardo Lorenzo che rischia invece di sbattere il muso e inimicarsi l’intero Palazzo.
Bini Smaghi è di carattere borioso. È paragonato per antipatia a Luigi Spaventa. Di famiglia comitale fiorentina, Lorenzo ha studiato, università compresa, in Belgio. Il padre, funzionario amministrativo della Farnesina, aveva un incarico europeo a Bruxelles. Dopo la laurea si è specializzato in California, poi nell’ateneo di Chicago conquistando un PhD in economia. Entrato a 27 anni in Bankitalia, si accodò a Ciampi di cui divenne pupillo. Condivideva con Dini il background Usa e lo imitava tenendo slacciati i polsini della camicia. La preparazione di Smaghi è indiscussa, ma non ha appeal. Se parla - dicono - gli interlocutori si distraggono. Ciampi, passato alla politica, lo chiamò nel 1998 al Tesoro di cui era ministro (D’Alema I). Vi rimase anche con Tremonti col quale pure era spocchioso. Lo stesso con Grilli, il ragioniere generale, suo rivale nella lizza di Bankitalia. Si diceva che se fosse diventato governatore Grilli, avrebbe avuto contro mezzo direttorio di Via Nazionale (che tifava per l’interno Saccomanni), ma che Bini Smaghi, se fosse toccato a lui, l’avrebbe avuto contro intero.

Con tanto soggiorno all’estero, snobba l’Italia come si vede in questi giorni. Anche se tende a sinistra - è stato collaboratore di Repubblica - non ha sensibilità per la politica che giudica per minus habentes. Vede come fumo negli occhi i nostri diplomatici che non riescono a indurlo alle valigie, sta benissimo a Francoforte, come d’altronde sua moglie, l’economista Veronica De Romanis che, dopo avere elogiato la Merkel in un libro, in Germania è di casa.
Siamo ostaggi della coppia.

Calziamo l’elmetto e prepariamoci alla guerra con la Francia.

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