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Legge anti-pentiti? No, norma utile

Il povero senatore Giuseppe Valentino è stato lasciato solo dalla sua maggioranza, che, per bocca del ministro Alfano, ha chiarito che il disegno di legge a firma del senatore non rientra in alcun modo nel programma di governo. Tuttavia, il quotidiano la Repubblica aveva preso molto sul serio questo disegno di legge in materia processuale, dedicandovi, per censurarlo duramente, una intera pagina fra le prime del giornale.
Ma qual è la grave colpa del senatore Valentino, tale da essere scaricato dai suoi stessi compagni di partito e aspramente bacchettato dalla sinistra? Nientemeno che aver predisposto un disegno di legge che disciplina il modo di formazione della decisione del giudice in ordine a dichiarazioni di correità, in ordine cioè alle accuse mosse dai pentiti. Apriti cielo! Chi tocca i fili muore, perché evidentemente questo disegno di legge sembra essere morto prima ancora di essere convenientemente discusso in aula.
Eppure, a ben guardare, il progetto non era per nulla malvagio, in quanto cercava di codificare in modo espresso quei principi che la giurisprudenza in tema di formazione e valutazione della prova già da alcuni anni ha messo in evidenza.
Sostanzialmente, essi si riducono a due che però sono fondamentali: da un lato, si stabilisce che le dichiarazioni dei pentiti possono assumere valore di prova soltanto in presenza di specifici riscontri esterni; dall'altro, si prevede che in caso di morte o di irreperibilità del soggetto che fa certe dichiarazioni accusatorie ad un’altra persona, la testimonianza resa da quest’ultimo soggetto non può assumere valore di prova.
Come chiunque può vedere, si tratta di principi che si direbbero scontati e perfino ovvi, ma che tuttavia è stato necessario elaborare attraverso un faticoso lavoro della giurisprudenza. Infatti, che per valere come prove, idonee di condurre alla condanna di un imputato anche a vari anni di reclusione, le dichiarazioni accusatorie dei pentiti debbano essere preliminarmente suffragate da riscontri esterni di carattere oggettivo, è un’assoluta ovvietà, anche se bisogna ricordarlo a tutti.
E d’altra parte, come si potrebbe mai giungere ad un giudizio di responsabilità senza aver prima verificato la fondatezza delle dichiarazioni di accusa attraverso fatti e circostanze esterne? Inoltre, è stata sempre la giurisprudenza più avveduta a precisare in molte occasioni che la testimonianza “de relato”, vale a dire tale da riportare dichiarazioni di altri soggetti (irreperibili o scomparsi) non può avere valore di testimonianza vera e propria, in quanto è testimone soltanto colui che conosce le cose che riferisce per averle apprese direttamente di persona: altrimenti costui non testimonia un bel nulla, limitandosi a riportare affermazioni altrui. Anche qui, siamo in presenza di conclusioni del tutto ovvie.
Ma allora, si potrebbe dire, che bisogno ci poteva essere di una legge sul punto? C’era e c’è bisogno per il semplice motivo che anche se la giurisprudenza più accorta si è già allineata su tali posizioni, non sempre e non dappertutto ciò accade: si danno infatti casi in cui tali principi, per quanto scontati, sono stati elusi o semplicemente ignorati da frettolose sentenze più preoccupate di giungere comunque ad un giudizio di responsabilità che di motivare correttamente e secondo diritto la condanna.
Intendo dire che la necessità di stabilire quei principi per legge va di pari passo con la possibilità che ancora sussiste che di fatto essi vangano elusi da alcuni Tribunali.

La legge l’avrebbe evitato.

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