Letteratura

Natasha Stefanenko, la vita in una città segreta della Russia

Ospite al "Passaggi Festival", l'importante rassegna culturale dal 21 al 25 giugno a Fano, Natasha Stefanenko presenta il suo libro "Ritorno nella città senza nome" (Mondadori), un thriller autobiografico in cui racconta la sua infanzia in una città segreta della Russia

Natasha Stefanenko, la vita in una città segreta della Russia

Dal 21 al 25 giugno, nel centro storico e nel lungomare di Fano, torna l'undicesima edizione di Passaggi Festival, l’unica manifestazione culturale italiana dedicata alla saggistica, in cui autori e personaggi del mondo dello spettacolo si incontrano e si confrontano, con numerose presentazioni che spaziano sui più diversi argomenti; dalla politica all’economia, dalla storia al giornalismo d’inchiesta, dalle scienze sociali alle biografie, dai viaggi alla cucina. Nato nel 2013 da un'idea del giornalista Giovanni Belfiori, il festival negli anni è cresciuto fino a diventare un appuntamento imperdibile dell'estate, con laboratori, mostre, letture e visite guidate.

Quest'anno, moltissimi sono gli ospiti che parteciperanno, a partire da Malika Ayane vincitrice del premio Fuori Passaggi, nella rassegna dedicata a musica e social con il suo libro Ansia da felicità (Rizzoli). Oltre a lei, premi anche per Lucia Annunziata e Franco Cardini. Presente anche la satira dissacrante di Osho, Federico Palmarolo, che presenterà il suo libro Come dice coso. Un anno di satira (Rizzoli). Il programma si arricchisce anche della presenza di Alessandro Chetta autore di Non sia mai detto! Discorso sull’autocensura. Arte, politica, maternità (Aras Edizioni), Alessandra Bocchetti che presenta Basta lacrime. Storia politica di una femminista 1995-2000 (Vanda Edizioni). Sono comunque moltissimi gli autori che saranno presenti nel ricchissimo programma previsto per l'imperdibile rassegna.

Presente al festival anche la bellezza e il talento di Natasha Stefanenko, che presenterà il suo libro di grande successo, Ritorno nella città senza nome (Mondadori), un romanzo che assomiglia ad una spy story dal profilo autobiografico ambientata nella Russia degli anni Novanta, in una città segreta sperduta tra gli Urali dove Natasha ha vissuto la sua infanzia. Ed è proprio con lei, che incontrerà i lettori il 24 giugno alle ore 23.00 durante il festival, parliamo di questo fenomeno editoriale.

Come ha avuto l'idea di scrivere una sorta di biografia che in realtà è un thriller?

"Non volevo scrivere un libro completamente autobiografico, autocelebrativo, così ho pensato di aggiungere qualcosa di fantasia alla tantissima verità che ho vissuto. Nel libro racconto quello che è accaduto in Russia in due particolari anni, il 1991 e il 1992, un periodo turbolento e complesso ma di grandi esperienze. Un momento storico, in cui tutto il mondo ci guardava con il fiato sospeso perché cadevano le nostre certezze ma si conquistavano tante libertà, anche se in noi viveva una grande contraddizione. Volevamo essere liberi, ma non capivamo davvero cosa significasse e forse questa cosa un po' ci spaventava. Quando sono venuta in Italia nessuno credeva alla storia della mia infanzia, al fatto che abitavo in una città segreta che non era sulle mappe geografiche e che aveva solo un numero identificativo, così con l'aiuto di mio marito Luca (Sabbioni) che scrive molto bene, ho iniziato un lungo percorso, ad iniziare dagli appunti che ho preso per non dimenticare i fatti che avevo vissuto, e alla fine è nato questo romanzo"

Davvero lei è cresciuta in una città segreta che aveva solo un numero di identificazione? Come lei e la sua famiglia siete finiti a vivere lì?

"Fino alla caduta del comunismo, era normale che alla fine degli studi qualcuno decidesse della tua carriera. Mio padre era stato mandato lì dalla Bielorussia e quando è arrivato non conosceva neanche la destinazione. Ti mandavano in un posto per un paio di anni, per distribuire le varie professionalità in tutto il Paese. Ma poi quei due anni diventavano tutta la vita perché la maggior parte delle persone si sposava e creava una famiglia dove era stata mandato. E così è stato anche per i miei genitori. Sono rimasti lì fino a quando io e mia sorella siamo andate a vivere altrove, troppo lontane per andarli a trovare spesso, così abbiamo pensato di portarli via da lì. Ma mio padre, che era un ingegnere nucleare, conosceva cose ritenute importanti e per 10 anni non ha potuto avere un passaporto, né uscire dal Paese".

Quale era il "nome" o meglio il numero della sua città?

"Sverdlovsk-45, ed era nata insieme a molte altre durante la Guerra Fredda. Stalin diede l'ordine di costruirle velocemente e per farlo vennero usati anche i detenuti dei Gulag. Era segreta perché lì si produceva uranio altamente arricchito per bombe e armi nucleari. Non esisteva sulla carta geografica e non aveva un nome, ma soltanto un numero, 45. Il nome che viene prima, Sverdlovsk, è quello della città più vicina, che ora si chiama Ekaterinburg e dista 250 chilometri. Era circondata da mura, filo spinato e guardie armate. Per entrare serviva un pass che avevano solo i residenti. I bambini lo ricevevano all'età di 7 anni, prima usavano quello dei genitori".

Immagino sia stata un'infanzia difficile la sua.

"In realtà no, perché quello era il nostro mondo e io pensavo che tutte le città fossero così e necessitassero di un pass per entrare. Dentro avevamo qualsiasi cosa e ho ricordi bellissimi della mia infanzia. La città era piena di giovani, c'erano tanti bambini, negozi in cui trovavi di tutto, dai cibi migliori, noi mangiavamo caviale e frutta esotica, ai vestiti italiani, le palestre e i centri spostivi dove io facevo nuoto. Credo fosse il modo in cui Stalin ricompensava i lavoratori a rischio sanitario costante per la vicinanza dell'uranio. Periodicamente infatti tutti gli abitanti dovevano andare al sanatorio per disintossicarsi dall’uranio. Mio padre in realtà, sapeva bene che quello non era un posto come tutti gli altri e cercava sempre di sdrammatizzare e di rendere la cosa giocosa per noi figlie. Per tanto tempo mi ha fatto credere che quando dovevamo attraversare i controlli, tutti i bambini dovevano recitare una poesia o cantare una canzone ai militari di guardia. Così io mi preparavo e facevo ogni volta il mio spettacolo, con le guardie armate che sorridevano e ovviamente non capivano il perché".

Cosa faceva lei bambina in quel posto?

"Per molti anni, ho fatto sempre le stesse cose, andavo in piscina alle sei del mattino, poi a scuola, quindi correvo a casa a fare i compiti in mezz’ora, per poi andare in palestra e di nuovo a nuoto. Per fortuna in matematica e in fisica andavo bene, mentre in geografia e storia dovevo impegnarmi di più perché avevo poco tempo. Il mio grande amore era il nuoto, volevo arrivare alle Olimpiadi del 1984, ma ad un certo punto mi sono trovata ad un bivio, procedere con gli allenamenti o andare avanti con gli studi. Ho scelto lo studio, perché con lo sport non potevi sopravvivere e ho scelto ingegneria metallurgica che mi avrebbe garantito il futuro".

Come è uscita dalla città?

"Proprio per la scuola, volevo frequentare l'università in città, ma mia sorella che studiava in Russia mi convinse ad uscire fuori, prché da noi non c'era futuro e così ho fatto".

Lei proprio in Russia ha vinto il concorso "The Look of the Year", sarebbe dovuta andare a New York ma non lo ha fatto, perché?

"Quando sono arrivata in Russia per me era come fosse un altro mondo, avevo sempre abitato nella mia città protetta e ora mi ritrovavo in un posto con milioni di abitanti. È stata molto dura per me. Partecipai al concorso per caso anche perché non era una cosa ben vista fare la modella o partecipare a queste manifestazioni. Il mio primo pensiero era studiare. Inoltre io non mi sentivo affatto bella, sono sempre stata una bambina molto alta, con le gambe lunghe, una sorta di giraffa. Ero biondissima, quasi albina insomma non ero una grande bellezza. Ho cominciato a cambiare a 17 anni, ma dentro di me ero sempre quella bambina insicura. Quando ho vinto sarei dovuta andare a New York per la finale mondiale, ma non l'ho fatto, non me la sono sentita perché era troppo lontana dal mio Paese in caso fosse successo qualcosa, visti i grandi cambiamenti che erano in atto. Ho comunque continuato a fare la modella e alla fine sono arrivata in Italia".

Perché proprio nel nostro Paese?

"L'Italia era più vicina ed inoltre era il Paese con il visto più facile da ottenere. Pensavo ci sarei rimasta solo quattro mesi, ora sono qui da 30 anni".

Non posso non chiederle dell'attuale conflitto tra Russia e Ucraina, lei cosa ne pensa?

“Sono contraria alla guerra, sono per la pace in qualsiasi posto al mondo. Credo sarebbe giusto guardare la storia, conoscerla, studiarla anche per capire, contestualizzare e non dimenticare. L’ultimo conflitto non sarebbe mai dovuto iniziare. Dobbiamo unirci tutti per spingere al dialogo, l’unica cosa che può salvarci è quello. Soffro per tutti quei ragazzi giovani che muoiono al fronte e per tutti gli innocenti coinvolti da anni. La situazione è dura, ognuno di noi ha un amico o un parente in Ucraina, ed è una cosa molto dolorosa. Nelle guerre come sempre soffre il popolo".

È più tornata nella città segreta? Ora dove vivono i suoi genitori?

"Ancora in Russia insieme a mia sorella. Nessuno di noi, neanche mio padre che ci ha vissuto per 35 anni, può più tornare in quella città che ancora esiste, anche se dicono che non ci siano più l'uranio.

Se sei uscito non puoi più rientrare, addirittura i miei genitori non sono neanche potuti venire al mio matrimonio per problemi con il visto, mio padre poi non poteva proprio muoversi perchè conosceva segreti militari".

Ritorno nella città senza nome

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