Letteratura

Il verso e il Verbo. Quando la poesia canta Dio

L'opera del cardinal José Tolentino pone il tema (ineluttabile) nel rapporto tra Fede e Letteratura

Il verso e il Verbo. Quando la poesia canta Dio

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Le poesie del cardinal José Tolentino, prefetto del Dicastero per la cultura e l'educazione in Vaticano, appena pubblicate da Crocetti come Estranei alla terra (pagg. 192, euro 17), pongono un problema. Qual è il rapporto tra la poesia e Dio? Per onorare il Verbo che annienta ogni verbo occorre balbettare in versi, lingua che sgretola la grammatica umana, le grammature del senso; lingua che sbrana i divari, sgomita tra latrato e letamaio d'aggettivi. Lingua offerta. Il problema, posto da San Paolo nella Prima lettera ai Corinzi tradotta da Giovanni Testori, con intuizione da predatore del verbo, in versi , riguarda il modo con cui l'uomo si rapporta a Dio. Invasato o meglio: ispirato il fedele parla a Dio esprimendosi in una giaculatoria che sfocia in afasia verbale, parola sghemba, glossolalica, che alleva incomprensioni. Altrimenti è la via prediletta dall'apostolo occorre abitare la profezia, abortire ogni altro dire per una parola che sia di edificazione a tutti. Ma qui andiamo per ardui sentieri.

Per José Tolentino la questione formale il Verbo annichilisce il verso?, il sacerdote può essere autenticamente poeta? si risolve presto. Il primo libro di Tolentino, Os Dias Contados, è pubblico nel 1990, lo stesso anno in cui il poeta viene ordinato sacerdote. In Tolentino, cioè, la scelta di fede e il carisma poetico vanno di pari passo, gemelli diversi. Pubblicato da uno dei massimi editori portoghesi, Assírio&Alvim, Tolentino è tra i protagonisti della lirica del suo paese insieme a Sophia de Mello, Ana Luísa Amaral, Eugénio de Andrade. Tra l'altro, ha tradotto l'opera di Cristina Campo. Tolentino opta per una poesia quotidiana, a volte diaristica, spesso gnomica («Il tempo è una botola, ma non fidarti/ quello che si omette finisce per riemergere»). La poesia confessionale e quella teologica sono canonicamente scansate da Tolentino in favore lo dice in Cos'è una poesia di una poesia come «esercizio di dissidenza... forma di apostasia». Piuttosto, viene da chiedersi come entra, nella poesia italiana, Dio. Quello che dovrebbe essere tema ineluttabile la poesia nostra nasce con il Cantico di San Francesco e la Commedia di Dante è relegato ai margini, intoccato per ignavia e per ignoranza, non certo per eccesso di devozione.

Ai massimi sistemi il poeta odierno preferisce la lagna quotidiana, le regioni celestiali del proprio ombelico, i problemi «sociali», un indefinito «impegno», un'elegiaca e calcolata isteria. Tranne isolati casi (i soliti: Francesca Serragnoli, Andrea Temporelli, Riccardo Ielmini, ad esempio), Iddio è un genere sorpassato, culto degli antichi padri La pietà di Ungaretti, le «passioni» di Mario Luzi e di Giovanni Raboni, i testi, che paiono giungere da uno scandaglio nello gnosticismo cristiano, di Montale e di Caproni. Repertori antologici che riferiscano i filoni della poesia «religiosa» in Italia sono appannaggio di catechisti o bravi cristi da messa domenicale. In altri Paesi non è così. Un paio di anni fa, per la cura di Jean-Pierre Lemaire, Gallimard ha pubblicato come Le Sommet de la route et l'Ombre de la croix una selezione di «poeti cristiani». Tra i cari noti Charles Péguy, Paul Claudel, Francis Jammes sono assemblati poeti straordinari come Jean Grosjean già sacerdote, ha tradotto in francese il Corano, i tragici greci e i profeti biblici e Patrice de la Tour du Pin, aristocratico, «recluso della poesia» (viveva nel suo bel castello nella Loira), che dopo il Concilio Vaticano II ha riformato il canone liturgico: i suoi inni vengono tuttora intonati nelle chiese francofone. Che questi autori siano sistematicamente ignorati nel nostro Paese non sorprende.

Il poeta argentino Hugo Mujica, già monaco trappista e studioso dell'esicasmo, pratica ascetica diffusa sull'Athos, ha ottenuto i massimi riconoscimenti letterari del mondo ispanofono. Nel 2006, per la Library of America, il bulimico Harold Bloom ha realizzato una immane antologia, American Religious Poems, che testimonia come la «religione americana» sia stata forgiata, per lo più, dai poeti. Nel testo, una specie di altra Bibbia, sono raccolti versi di predicatori itineranti e di improvvisi ispirati insieme a quelli di Melville e di Whitman; la Dickinson è al fianco di Emerson e di Robert Frost; Wallace Stevens e T.S. Eliot dialogano con William Everson, il «santo beat» da domenicano si faceva chiamare Brother Antoninus , gli spirituals e le memorabili horae canonicae di W.H. Auden. Un caos? Tutto il contrario: l'eminente consapevolezza del valore teurgico, misterioso, magico della parola poetica. Se la poesia non si sporge nell'al di là del linguaggio è mero artificio, inutile sfogo dell'ego in forma di iena, infeconda pastura verbale.

La poesia nasce dal combattimento con Dio: lascia un sapore di sangue all'angolo destro della bocca.

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