Controcultura

Locatelli e quell'allegoria dell'Italia in pericolo

«Tirrenica» o «Adriatica» è un'opera profetica che rappresenta il Paese in balia dei venti di guerra

Locatelli e quell'allegoria dell'Italia in pericolo

Era difficile immaginare che, dopo avere iniziato a ristudiare Romualdo Locatelli, pittore bergamasco morto misteriosamente, forse nel 1943, a 37 anni a Manila, nei boschi di Rizal, dove non fu più ritrovato, ne avrei trovato un'opera capitale, partita dall'Italia e finita a Parigi dopo essere passata per teatri e postriboli per poi ritornare, arrotolata, in Italia. L'incontro fu casuale e singolare: campeggiavano sulla parete di una mostra a Modena due rutilanti dipinti che avevano la vitalità e l'energia pittorica di Locatelli. L'attribuzione, benché sbagliata, era lusinghiera: si trattava infatti di due dipinti del grande Antonio Mancini, maestro naturale di Locatelli. Ma l'errore stimolò l'espositore a seguire la mia pista e a dirmi: «Di Locatelli abbiamo un capolavoro»; e prontamente mi mostrò l'opera che presentiamo in questa pagina, di ispirazione simbolista e di gusto seicentesco, come un Cagnacci redivivo. Il soggetto, certamente allegorico, resta difficile da decifrare, ma il dipinto ha una leggenda presso la famiglia del grande pittore, ed è probabilmente l'ultima opera importante prima della partenza per l'Oriente, nell'euforia finale di una pittura esotica e intimamente neobarocca. La grande tela fu sicuramente dipinta a Roma e destinata prima, certamente, a una sede pubblica.

A Roma, Romualdo aveva trasferito le memorie dei viaggi africani, tra folclore e resoconto etnico come nello Scrivano pubblico del 1931, o dell'appassionata parentesi sarda, di cui sono eloquenti e asciutti documenti Costume di Atzara e Ninna nanna sarda, capolavori di verità e intimità. E intanto affronta soggetti popolari come Sull'uscio di casa del 1933, o Lo scugnizzo del 1934. A Roma una committenza alta gli consente esiti di grande impegno come Le lettrici del 1934. L'impegno è crescente anche come ritrattista. Frequenta il circolo artistico di Augusto Jandolo in via Margutta, dove incrocia gli artisti attivi nella capitale, giocando in casa con uno studio nella galleria del grande antiquario. La prima personale di Romualdo a Roma ha luogo il 3 novembre del 1933, proprio nello studio Jandolo. È l'occasione anche per dipingere il vivo e bonario ritratto di Jandolo. E, nello stesso anno, il 12 dicembre arrivano in visita Vittorio Emanuele III e la moglie a consacrare il talento superbo di Locatelli, mentre nel giugno del 1934 il ministero dell'Istruzione nazionale acquista l'opera Il mercato arabo. Poi Locatelli espone nelle più importanti città italiane: Genova (1933-1934), Napoli (1934-1935), Firenze (1934), Trieste (1935), Catania (1935), Venezia (1938). Dopo il ritratto di Jandolo si applica a quello vivo e parlante, nell'abito lungo, di Ida Banfi, e a quello sontuoso del cardinale Todeschini (1937). È lo stesso cardinale, il 21 maggio del 1938, a celebrare il matrimonio di Romualdo con Erminia Zaccheno. È un momento importante anche per la creatività del pittore; ed è Il Giornale d'Italia ad annunciare che egli ha portato a termine un'opera impegnativa, Tirrenica, che «rappresenta il vento dell'Italia nuova», forse destinata alla Biennale di Venezia. È l'opera di più largo respiro di Romualdo Locatelli «che ha continuato a lavorare e, quello che più conta, a camminare sulla strada maestra dell'arte, lontano da tutte le frenetiche influenze novecentiste».

Augusto Jandolo, amico intimo di Romualdo, fu il primo a vedere il Tirrenica finito, a Roma, e si complimentò con il pittore per la spettacolare bellezza che ispirava la figura centrale. L'artista spiegò: «Sta cercando di trattenere il velo che le è stato strappato dai venti di guerra che soffiano in Italia e in Europa in questo periodo. Quel velo rappresenta la società attuale, il mondo in cui viviamo ora, che la guerra minaccia e sta per portarci via. L'ho chiamata Tirrenica o Adriatica perché non so da dove verrà il vento della libertà, se dal Tirreno o dall'Adriatico. Le colonne in rovina sullo sfondo rappresentano ciò che rimarrà dopo la distruzione, le rovine destinate a scomparire». Secondo Arthesia Locatelli, questo dipinto è molto importante perché è un'altra allegoria di Romualdo, come lo fu, agli esordi, Il dolore, più del migliore ritratto o di uno dei tanti ariosi paesaggi. Qui l'artista ha espresso se stesso, i suoi pensieri e i suoi sentimenti, come in quegli anni stava cercando di fare disperatamente anche nel campo della pittura sacra; ma non ebbe il tempo di portare avanti l'idea che lo ossessionava.

Arthesia suggerisce che ci sarebbe un modo certo per stabilire se questo è il Tirrenica o Adriatica: la tela nel centro è stata rotta da un pugno, un pugno tremendo di Romualdo contro la sua stessa creazione pochi giorni dopo, durante un'accesa discussione con Erminia, poiché temeva che nessuno avrebbe capito il significato dell'opera che aveva creato. La sua furia fu scatenata da un'osservazione risentita della madre Angelina, in visita a Roma, che disapprovava la cruda nudità delle figure. Erminia andò su tutte le furie e gli chiese di picchiare lei, piuttosto che rovinare la sua opera. Lo calmò, e infine lui stesso riparò la tela e volle che fosse il dono di nozze per la sua sposa. «Per la grande tela - ricorda Arthesia rivolgendosi ad alcuni parenti - posarono alcune donne della famiglia: una di schiena dovrebbe essere la mamma di mio nonno, mentre una mia prozia posò per il seno, e così via. Quando Romualdo ed Erminia partirono in fretta e furia, lasciarono in deposito la tela, arrotolata e chiusa in una cassa. Poi le cose andarono come andarono (la scomparsa di Romualdo, la guerra, l'età), e la cassa finì in casa di mia nonna, in deposito per conto di Erminia. Nei primi anni '80, su istruzioni impartite da Erminia direttamente dall'America via lettera, qualcuno venne a Milano a riprenderla, accompagnato dal fratello di Erminia, Eugenio. Io ero presente, la visita fu brevissima e ricordo che dalla finestra li vidi per strada fissare la cassa sul portapacchi di un'auto, che in breve tempo ripartì. Nelle intenzioni da voi espresse ad Erminia, la tela si sarebbe dovuta donare all'Accademia Carrara di Bergamo che l'avrebbe anche restaurata, perché, dopo tutti quegli anni passati arrotolata, non si sa come fosse ridotta. Mi piacerebbe tanto sapere come andò a finire...».

È andata a finire che, con suprema soddisfazione, il dipinto è entrato nel mio cuore e nella Fondazione dedicata ai miei genitori.

Quadro di rinascita, di vita, di una Europa vera; e, nel contempo, riconoscimento di un grande artista dimenticato.

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