Magistratura

Il vero nodo è il conflitto di competenze tra l’Antimafia e le Procure distrettuali

La gestione delle informazioni e l’ampliamento dei poteri sono da anni al centro di discussioni. E i superprocuratori, finito il mandato, vanno a sinistra

Il vero nodo è il conflitto di competenze tra l’Antimafia e le Procure distrettuali

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Il vero nodo è il conflitto di competenze tra l’Antimafia e le Procure distrettuali

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Solo l’indagine di Perugia potrà meglio disvelare cosa si celava dietro l’attività di Pasquale Striano, il finanziere finito al centro di un procedimento per accesso abusivo a banche dati informatiche, unitamente ad alcuni giornalisti del Domani e al magistrato Antonio Laudati.
Per il momento, vale la pena ricordare come il tema della gestione delle informazioni sulle operazioni sospette (Sos) sia stato al centro di ampia discussione riguardo le competenze da attribuire alla Procura Nazionale Antimafia e alle Procure distrettuali. Nata nel 1992 da una intuizione di Giovanni Falcone, la Procura Nazionale Antimafia venne osteggiata dalla magistratura associata che mal sopportava un «uomo solo al comando» e per queste ragioni inizialmente limitata ad un mero ruolo di coordinamento. Nel corso degli anni tale ufficio ha però ampliato le proprie competenze, entrando così in conflitto con le Procure distrettuali che ordinariamente sono chiamate a svolgere le indagini.
Emblematica la vicenda relativa alla gestione delle operazioni sospette che grazie ad una direttiva europea sono state attribuite anche alla competenza della Procura nazionale antimafia solamente a partire dal 2019.
Tale ampliamento di competenza aveva destato forti preoccupazioni tra i Procuratori dei più importanti uffici inquirenti, capitanati dal procuratore di Roma Giuseppe Pignatone, il quale ebbe il merito di lanciare l’allarme. Il timore era duplice: quello di una possibile «invasione» della Procura antimafia rispetto alle competenze delle Procure distrettuali; quello di non poter controllare l’iniziale sviluppo della attività di indagine e conseguentemente la possibilità che si verificassero fughe di notizie. Ciò anche in considerazione del fatto che alla guida della Procura Nazionale Antimafia c’era Cafiero de Raho, nominato al vertice di quell’ufficio dopo essere stato bocciato a ricoprire il ruolo di Procuratore di Napoli. Il tema di fondo era sicuramente una sfiducia ad personam ma anche evitare che si potessero svolgere indagini nei confronti della parte politica sbagliata.
Con esclusivo riferimento alla vicenda in esame, oggi possiamo dire che quelli di Giuseppe Pignatone, erano timori fondati.
Infatti, gestire una rilevante mole di informazioni pone in posizione privilegiata coloro i quali cessano dall’incarico. Il tema è quanto mai attuale nel nostro Paese, considerando che da circa un decennio, chi cessa dalla carica di Procuratore nazionale antimafia sistematicamente viene assoldato dai partiti politici «non di destra» quasi esistesse un debito di riconoscenza perla carica in precedenza ricoperta.
Ora, al di là dello sviluppo delle indagini perugine, il quadro così delineato determina la necessità di ragionare con fermezza sulla distribuzione delle rispettive attribuzioni tra Procura nazionale antimafia e Procure distrettuali e soprattutto sulla attualità dello schema delineato da Giovanni Falcone.
Questo è il compito della politica che voglia guardare al sistema giustizia incrementando certamente l'efficienza, ma anche il bilanciamento dei poteri e la difesa di una «indipendenza interna», nella quale l'apporto del singolo ufficio e del singolo magistrato sia funzionale ad un reale dialogo costruttivo.
Un dato è certo: la vita pubblica e politica del Paese non può essere condizionata da fughe di notizie in relazione alle quali in alcuni casi si svolgono indagini e si pubblicano notizie a seconda della casacca politica indossata e della imminenza delle nomine delle più alte cariche dello Stato.

Questa non è democrazia ma avvelenamento di pozzi.

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