Attacco a New York

Ritorna il terrore: sedici anni dopo le Torri Gemelle

Era da settembre del 2001 che la città non veniva colpita con un attentato

Ritorna il terrore: sedici anni dopo le Torri Gemelle

A volte ritornano. E anche se è successo la sera di Halloween non è esattamente un sortilegio. É quello che l'Isis sconfitto da Mosul a Raqqa andava promettendo da tempo. Aveva incominciato a farlo nel numero tre di Rumiyah, la sua rivista online pubblicata nel novembre di un anno fa. In quel numero lo Stato Islamico prefigurava una strage messa a segno da un furgone mandato a schiantarsi contro la parata dei grandi magazzini Macy's, la manifestazione icona del giorno del ringraziamento nella Grande Mela. La sfilata che richiama ogni 23 novembre decine di migliaia di turisti. Al di là delle analogie quello che contava per l'Isis era colpire al cuore l'America. Lo si era capito subito dopo la terribile strage al concerto di Las Vegas del 2 ottobre quando il Califfato sconfitto aveva fatto di tutto per accreditarsi la paternità del massacro indicando come un proprio adepto l'autore della folle mattanza.

Ma New York, la città dell'11 settembre, il simbolo della Grande Mela, è un obbiettivo ancora più simbolico. Colpire lì significa colpire la città più protetta del mondo, significa farsi beffe dei sistemi di sicurezza della più grande potenza globale, significa violare l'intimità e l'essenza del più grande nemico. Ma significa soprattutto essere ancora vivi. Significa comunicare ai fedeli di tutto il mondo che le disfatte subite sul terreno non hanno ancora cancellato le «bandiere nere», che il proprio simbolo è ancora in grado di far paura e di attrarre fedeli pronti a sacrificarsi per esso. Nessuno s'illudeva che la riconquista delle capitali del Califfato potessero coincidere con la fine del terrorismo.

In questi 16 anni lo stragismo jihadista è sopravvissuto al crollo dei talebani in Afghanistan, ai duri colpi infertigli in Iraq grazie dal generale David Petraeus e infine alla morte del fondatore di Al Qaeda Osama Bin Laden. Pensare che per chiudere la partita bastasse radere al suolo Raqqa e Mosul era un'illusione. La guerra al terrorismo è una guerra di lunghissima durata ancora tutta da vincere non solo nei deserti dell'Iraq, della Siria e dell'Afghanistan, ma anche nel Maghreb, in Africa e nelle Filippine. E non solo. Per quel che riguarda noi europei e l'America la partita più importante si gioca nelle periferie delle nostre città e in seno a quelle comunità musulmane dove una cultura e un culto dell'odio alimentano le imprese dei lupi solitari. Senza dimenticare le migliaia di terroristi di ritorno che dopo aver combattuto nei territori del Califfato si preparano a riprender servizio all'interno dei nostri confini.

In questo molto spesso l'Occidente stenta a trovare la compattezza necessaria ad arginare il pericolo. La disinvolta disattenzione con cui i giganti del web hanno per anni ospitato la propaganda dell'Isis è la dimostrazione di quanto l'Europa, ma anche l'America stentino a comprendere la pericolosità del nemico. Ma per l'America il colpo subito ieri rischia di essere più doloroso. Mai nei 16 anni seguiti all'11 settembre il gigante statunitense è stato così diviso. Mai una campagna di stampa, feroce come quella che solo i media statunitensi sanno lanciare e condurre, ha contribuito a denigrare l'autorità di una presidenza chiamata nei momenti difficili a diventare il sostegno e l'ancora del paese.

Una presidenza accusata con troppa fretta di flirtare con l'avversario russo quando l'unico vero nemico capace di colpire al cuore l'America resta quello islamista.

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