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Il mostro che per primo dimostrò la debolezza europea

È stato un mostro, ma anche un cinico visionario. Un criminale capace d’intuire quello che la storia comprenderà molto più tardi. Ratko Mladic il massacratore di Srebrenica, intravvide con 20 anni d’anticipo la debolezza, l’impotenza, le divisioni che oggi minacciano di disgregare la Vecchia Europa. Le comprese e ne fece la propria forza. Grazie all’insipienza della Comunità Europea d’allora, grazie allo sguardo ora impotente ora consenziente di Londra, Parigi e Berlino il generale Mladic si concesse il lusso d’assediare, distruggere e sterminare. La metastasi di un’Unione Europea pronta, 20 anni dopo, a sfaldarsi sotto i colpi della tragedia greca inizia dai Balcani. E tra le carte del processo al mostro Ratko Mladic apertosi ieri a L’Aja si nasconde il peccato originale dell’Unione Europea. Un’Europa prigioniera di genetiche divisioni. Un’Europa che dal 1991 al 1995 lascia campo libero al generale simbolo della «ibris» serba consentendogli prima gli orrori della pulizia etnica, poi quelli dell’assedio a Sarajevo e infine quel capolavoro dell’orrore chiamato Srebrenica. In questo scenario di morte l’Europa e i suoi rappresentanti giocano un ruolo non proprio insignificante.
Il 4 giugno 1995 il generale francese Bernard Janvier, comandante a quel tempo di tutte le forze Onu nella ex Jugoslavia, incontra segretamente Ratko Mladic per trattare la liberazione dei caschi blu, in gran parte francesi, trasformati in ostaggi e scudi umani dalle milizie serbe. Ratko glielo concede, ma in cambio pretende la fine dei raid aerei della Nato. Esattamente un mese dopo il generale serbo inizia l’avanzata su Srebrenica, la piccola enclave musulmana assediata dalle sue milizie nonostante l’Onu la consideri un’ «area protetta». Nel libro nero dell’infamia europea dopo il nome di Janvier arriva quello del colonnello Thom Karremans, l’ufficiale al comando del battaglione di caschi blu olandesi che l’11 luglio 1995 consegna Srebrenica all’esercito di Mladic. Karremans però ha un’attenuante. Prima di deporre le armi, prima di brindare con Mladic, prima di consegnargli le 8000 anime di Srebrenica invoca disperatamente l’intervento aereo della Nato. La decisione finale spetta a Janvier, ma il generale invece di consultarsi con il Palazzo di Vetro chiama Parigi. Alain Juppe, primo ministro dell’epoca - lo stesso che nelle vesti di ministro degli esteri del presidente Sarkozy appoggerà i bombardamenti sulla Libia - consiglia un secco no. Gli 8mila morti di Srebrenica, l’acquiescenza francese, i brindisi con il mostro Mladic del colonnello olandese Karremans sono solo l’epilogo degli errori europei.
L’Unione Europea appare divisa e litigiosa fin dai primi giorni della disgregazione jugoslava. Nel giugno 1991 Slovenia e Croazia contano soprattutto sull’appoggio di Germania e Austria per dire addio a Belgrado. Sperano che i due paesi mentori della loro indipendenza li difendano dalla rabbia serba. Non hanno fatto i conti con l’ostile indifferenza di Londra e Parigi. Mentre l’Europa finge di mediare una pace impossibile, Gran Bretagna e Francia appoggiano Belgrado, procrastinano qualsiasi intervento. Non paga di questi precedenti l’Europa si assume, nel 1992, la responsabilità di appoggiare il referendum per l’indipendenza voluto dai musulmani di Bosnia Erzegovina.
Tutti sanno che la nuova secessione accenderà il capitolo più sanguinoso e spietato del conflitto. E l’Europa sa che le proprie divisioni le impediranno sia di far da paciere, sia di bloccare la furia serba.
Eppure in quel fatidico 1992 l’Europa mette la testa sotto la sabbia, attende che gli eventi facciano il proprio corso. Reagisce insomma con la stessa insipienza con cui assiste oggi all’incipiente dramma della Grecia.
Il risultato d’allora sono gli 8000 mila morti dell’eccidio di Srebrenica imputati a Ratko Mladic e le circa 100.000 vittime complessive della tragedia bosniaca. Vent’anni dopo l’ultimo mostro di quella guerra è Ratko Mladic.

Speriamo che tra qualche anno i sopravvissuti dell’Europa non ne debbano trovare un altro per giustificare un disastro chiamato Grecia.

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