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Quando Enzo Ferrari fu accusato di omicidio plurimo

Nel maggio del 1957, durante la Mille Miglia, una Ferrari esce di strada e uccide 9 persone: sorge un assurdo processo a carico del costruttore, che è costretto a provare la sua innocenza anche se non era al volante

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Scala le marce il marchese Alfonso De Portago. Scorre veloce sul nastro d'asfalto, sospinto da un motore sontuoso. Slaccia un sorriso ogni volta che accelera, divorando le curve della Mille Miglia del 1957, nella zona di Mantova. La folla assiste rapita alla danza di quei bolidi che sfrecciano a due passi. Per la normativa di sicurezza citofonare più tardi, grazie. Viaggia, il nobile iberico, inconsapevole dello sfacelo che sta per generare. Sgasa in concomitanza di una svolta stretta. La vettura si imbizzarrisce. De Portago prova a riprenderla, ma sbanda. E si infila dritto in mezzo alla folla circostante, falciandola. Muore lui. Muore il copilolta, l'americano Edmund Nelson. E perdono d'un tratto la vita altre nove persone, di cui cinque bambini. Una tragedia immane che scuote il circuito. Gara sospesa, ma soltanto dopo tre ore, alle sette di sera. Piloti che schivano i cadaveri. La carcassa della macchina che fluttua in un fosso. Il marchese - scena raccapricciante - tagliato a metà da un palo dopo essere stato sbalzato fuori. Lutto lancinante.

Ma quel che ne consegue è francamente bizzarro. Subito dopo i funerali sgorga la polemica. Va trovato un colpevole. Un capro espiatorio. Non certo De Portago, che è passato a miglior vita. Nemmeno chi lo coadiuvava dal sedile a fianco. Se di qualcuno deve essere la responsabilità, bisogna che sia vivo e vegeto per istruire un processo a suo carico. E quel qualcuno viene presto identificato in Enzo Ferrari, il costruttore modenese che ha plasmato quel sogno rosso. Le forze dell'ordine lo fermano, lo perquisiscono, gli ritirano persino il passaporto. Pare assurdo, ma è tutto reale. A processo per omicidio colposo plurimo. Anche se alla guida non c'era mica lui. Però la perizia tecnica ordinata dal tribunale è un pugno nello stomaco. Il mezzo era sufficientemente sicuro per viaggiare in quel modo? Apparentemente no.

Ferrari
Enzo con una sfilata di rosse alle spalle

D'un tratto Ferrari si sente protagonista involontario di un horror. Anche perché, accanto allo zelo dei giuristi, si moltiplica la furia del popolo, su cui soffiano da ogni lato. L'ossigeno maggiore per questa fiamma giunge dalla chiesa che - come ha ricordato Luca Dal Monte nel suo libro "Ferrari, presunto colpevole" - tramite l'Osservatore Romano fa saper che il costruttore è "Un Saturno ammodernato che divora i propri figli". Tradotto: manda al macello i suoi piloti, facendoli salire su vetture non sicure.

Del resto la perizia sembra rivelare chiaramente che quelle gomme lì erano inadatte. Che non potevano resistere alle sollecitazioni di una velocità come quella raggiunta dal mezzo. Quegli undici morti vanno giustificati. Enzo Ferrari, all'apice del successo, rischia di vedere sbriciolata in un amen la sua prodigiosa carriera. Non solo: se perde lo sbatteranno in galera per decenni, considerata la moltiplicazione della pena.

Si affida, allora, al luminare del diritto Giacomo Cuoghi. Insieme a lui predispone una inscalfibile memoria difensiva. Per scagionarsi dimostra dapprima che i periti del tribunale non possiedono le competenze tecniche richieste per emettere quel genere di verdetto. Poi imbastisce una contro perizia, riuscendo a dimostrare che gli pneumatici sono sì esplosi, ma mica per la sollecitazione della velocità. A bucarli irrimediabilmente è stato l'urto contro uno degli "occhi di gatto" che delimitano il centro della strada. Touché. Enzo è salvo in corner. Scansa quella raffazzonata ipotesi di responsabilità oggettiva e torna a respirare nel 1961, quattro anni dopo la tragedia.

Ma chissà che ne sarebbe stato della macchina più amata e invidiata al mondo, se lo avessero messo dentro gettando via la chiave.

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