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"In 50 anni al Beccaria ho visto 50mila ragazzi. Da loro mai un vaffa"

Intervista a don Gino Rigoldi. Lo storico cappellano lascia dopo mezzo secolo l'incarico all'interno dell'istituto penale minorile. "Quanti ragazzi ho salvato? Non so, ma quando visito le carceri per adulti dei miei ne incontro pochi"

"In 50 anni al Beccaria ho visto 50mila ragazzi. Da loro mai un vaffa"

«In 50 anni come cappellano del Beccaria avrò visto passare 50mila ragazzi. E da loro non ho mai ricevuto un "vaffanculo"». Detto da chi, come don Gino Rigoldi, ha trascorso una vita tra minorenni detenuti e pregiudicati, molti con problemi di dipendenze e anche psicologici, è un mezzo miracolo. Affermare che don Gino, 84 anni, gli adolescenti problematici sa come prenderli è riduttivo. Nei giorni dell`addio all`incarico dentro l`Istituto penale minorile di via Calchi Taeggi («tra una settimana vado in pensione») il sacerdote racconta a lungo di cadute e redenzione, ha gli occhi vispi e sorride tanto. In mezzo secolo ne ha accolti tantissimi, oggi in casa sua abitano in 14 ex detenuti, qualcuno l`ha pure adottato. Però qualcun altro l`ha anche dovuto cacciare via. «Quanti ne ho salvati di quelli che ho incontrato? Non voglio sembrare troppo ottimista, però quando visito le carceri per adulti, dei miei ne incontro pochi».

Don Gino, cominciamo parlando del suo futuro.
«Sarà ancora in gran parte al Beccaria, insieme a don Claudio (Claudio Burgio, con cui lavora da quasi 20 anni, ndr), non me ne vado. Poi seguo i progetti della fondazione e delle associazioni. A casa mia ospito 14 ex detenuti, lavorano tutti tranne due. Una volta i carabinieri hanno scritto che era "una casa molto mal frequentata" (ride). Ho tanti sogni e qualche idea folle. Voglio diffondere un metodo educativo, basato sulla costruzione di relazioni e comunità. I ragazzi sono sempre con il telefonino in mano, che è il contrario della relazione e dell`accoglienza».

Qual è la via?
«Gli propongo qualcosa di diverso. Di fare gruppo, di trovare amicizia, condivisione, fiducia reciproca. Gli adolescenti hanno bisogno di sentirsi sicuri di sé, di essere apprezzati e valorizzati. Quando si rendono conto di valere, hanno grandi cambiamenti. Invece di continuare a lamentarci dei giovani, dovremmo occuparci di loro. Farli diventare veri cittadini e vere persone felici. Sono gli educatori a dover trovare gli strumenti per questo. Io li porto con me a fare volontariato all`estero, ad esempio. L`unico modo che abbiamo per vincere sui media e sui social è farci presenti per loro».

Il suo più grande rimpianto?
«Il detenuto che un giorno mi disse: "Don Gino, voglio parlare con te" e io: "Torno nel pomeriggio". Ma nel pomeriggio lui era già appeso per il collo... Il rimpianto è fatto di tanti rimpianti, per tanti ragazzi avrei dovuto capire cosa stava accadendo. Un adolescente appeso per il collo è una cosa che ti resta dentro per sempre. I fallimenti ci sono, sono frequenti. Pensi di aver fatto cose bellissime per loro e poi ricadono nella droga, nei furti».

E la soddisfazione?
«Quella è spesso legata a un fattore più personale: quando si crea un bel rapporto e capisci che anche loro ti vogliono bene».

Un ragazzo che le è rimasto nel cuore.
«Gaetano, un bel ragazzo milanese, con un bel cervello. Faceva rapine e diceva che non voleva finire come il padre che lavorava tutto il giorno in un supermercato, tornava la sera stanco morto, beveva due bicchieri e andava a letto. Ha avuto le sue batoste penali, poi è stato da me, ma ho scoperto che trafficava con l`eroina. È finito in carcere, l`ho ripreso, l`ho adottato. Si è diplomato e si è iscritto a Medicina. C`era un legame intenso. Diceva: "Tu mi hai sempre amato, anche quando ero stronzo". All`epoca però non esistevano i farmaci retrovirali per l`Hiv. Una sera mi chiama: "Dobbiamo parlare del mio funerale"».

Ha mai avuto paura?
«Sono nato in zona via Padova, in casa di ringhiera, e sono cresciuto in cortile in mezzo agli altri. Tra la gente non ho mai avuto paura. Con i ragazzi detenuti, che spesso hanno anche qualche disturbo, se non hai paura loro sono tranquilli. Se invece mostri timore, gli restituisci un`immagine cattiva di sé. La paura è già un giudizio».

Si occupa anche degli agenti penitenziari?
«Con gli agenti ho un bel rapporto, è da un po` che cerco disperatamente per loro uno stabile per gli alloggi fuori dal carcere, in città, più confortevole della sistemazione attuale. Ora dormono in tre in una stanza, dentro l`Ipm. Va a finire che sono anche loro in galera... Ma con quegli stipendi le case di Milano costano troppo. Sono loro che trascorrono più tempo con i detenuti. E, come tutti, se stanno bene, fanno un lavoro migliore».

Che rapporto ha con la politica?
«Tante volte mi hanno chiamato prete comunista... Per me la politica è la difesa dei più poveri, cosa ben diversa dal partito. Gesù è stato ucciso, perché faceva troppa politica. Parlava di uguaglianza, di religione del cuore e metteva in pratica ciò che diceva. Io faccio le cose, perché le vedo possibili. Anni fa regalai a un ministro (Matteo Salvini, ndr) una maglietta con scritto "Dio c`è, ma non sei tu. Rilassati". Oggi gli direi: "Dio c`è, ma non sei tu. Avanti". E quando affermo che è disumano tenere per 22 ore al giorno i detenuti chiusi nelle celle, come si fa in molte carceri per adulti, cosa sto facendo se non politica?».

E con Dio?
«Con Gesù ho un bel rapporto, ho fatto anche qualche miracolo (ride). Una volta un importante imprenditore mi ha regalato un viaggio a Lourdes, io non ci andavo da trent`anni. Allora qualche giorno prima ho detto a Gesù: "Ho un problema da risolvere e se non mi fai la grazia, sabato lo dico a tua mamma". Non ci crederà, ma cinque passi dopo avevo in tasca la soluzione».

Si ricorda il primo giorno al Beccaria?
«Quel giorno usciva Angelo. Io ero un po` ansioso, ma avevo già la capacità di farmi capire e di ascoltare. Angelo era un figlio del Sud, a quei tempi al Beccaria ne passavano oltre mille all`anno. Gli dico: "Allora vai a casa" e lui: "E chi ce l`ha una casa? Ho qui la chiave per aprire una macchina". Intendeva un attrezzo per scassinarla. Avevo due camere e gli ho detto di venire da me. Dopo un mese in casa mia erano in trenta e ho dovuto darmi una regolata. Poi mi sono creato la mia squadra, perché questo lavoro non si può fare da soli. Ma dopo poco quello che facevo ha avuto una ricaduta positiva, ho acquisito credibilità. Da lì è stato un crescendo: dei ragazzi non te ne liberi mai...

».

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