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Quelle anomalie che gettano una nuova ombra sulla strage di Alcamo Marina

Dopo 47 anni, una Commissione d'inchiesta tenta di fare luce sulla strage di Alcamo Marina, ma nonostante l'ottimo lavoro svolto, pesanti anomalie gettano ulteriori ombre sul caso

Quelle anomalie che gettano una nuova ombra sulla strage di Alcamo Marina

Con l’arresto di Matteo Messina Denaro la notizia è passata comprensibilmente in sordina, ma è di pochi giorni fa la pubblicazione della relazione finale del gruppo di lavoro sulla strage di Alcamo Marina, una costola della Commissione parlamentare antimafia che, fino allo scioglimento della XVIII Legislatura, ha lavorato nel tentativo di far luce su un evento ormai lontano nel tempo – parliamo del 26 gennaio 1976 – ma con inquietanti connessioni che attraversano gli anni delle stragi – 1992/93 – e arrivano clamorosamente fino ai giorni nostri.

Il perché dell’avverbio “clamorosamente” lo spiegheremo a breve. Ora occorre brevemente far capire di cosa si è occupato specificatamente il gruppo di lavoro su Alcamo Marina.

Il 26 gennaio del 1976 due carabinieri – Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta – vengono trucidati all’interno della caserma estiva – e inspiegabilmente aperta in una fredda notte d’inverno – nella località marittima di Alcamo Marina, in provincia di Trapani. Oggi demolita, la casermetta diventa lo scenario di un film dell’orrore, con due giovani carabinieri crivellati di colpi da assassini senza scrupoli che aprono la porta della caserma con una fiamma ossidrica, che tagliano le gomme della macchina d’ordinanza parcheggiata nel cortile e che recidono i fili del telefono.

Per questo massacro verranno arrestati, torturati [è giudiziariamente acclarato nella sentenza del processo di revisione per la strage, ndr] e condannati cinque giovani. Il primo, un anarchico di 24 anni dalla personalità fragile, Giuseppe Vesco, accuserà gli altri, salvo poi ritrattare dalla sua cella. La stessa cella dove verrà ritrovato impiccato. Ancora oggi senza spiegazione come abbia fatto a produrre il nodo, essendo privo di una mano.

Un altro degli arrestati, Giovanni Mandalà, morirà in carcere per una grave malattia; altri due ragazzi, Vincenzo Ferrantelli e Gaetano Santangelo, scelgono la via della latitanza e riparano all’estero; l’ultimo, Giuseppe Gulotta, passerà in carcere oltre trent’anni da innocente. Non solo lui, ma per tutti gli altri la giustizia ammetterà infatti di aver commesso un errore. Non sono loro gli autori del massacro e – per quanto ancora oggi c’è chi tenti con argomentazioni varie di attribuir loro un ruolo nella vicenda – è provato come le loro confessioni siano state il frutto di una violenza ingiustificata in uno stato democratico. Violenza del resto denunciata da un carabiniere testimone all'epoca dei fatti, Renato Olino, che nel 2008 riferisce le violenze perpetrate e fa riaprire il caso.

Un caso che viene nuovamente archiviato nel 2020. 12 anni di nulla investigativo. Nonostante di elementi su cui indagare ce ne fossero. E molti.

È proprio su questi elementi che si è concentrato il gruppo di lavoro, perché esiste un filo rosso (sangue, neanche a dirlo) che lega gli eventi del 1976 a altrettanto tragici e enigmatici eventi del 1993. Siamo sempre ad Alcamo, in quella provincia che è stata fino a pochi giorni fa il feudo di Matteo Messina Denaro.

C’è infatti un poliziotto oggi in pensione – Antonio Federico – che in più riprese, a partire dal 1997, passando per il 2012 e arrivando a oggi, di fronte a diversi magistrati ripete un racconto a tratti lacunoso, ma che dovrebbe far porre domande oggettive a chi si occupa del caso o, più semplicemente, innescare un’attività di verifica: la misteriosa fonte che nel 1993 gli permise di scoprire un arsenale di armi custodito illegalmente da due carabinieri, gli avrebbe non solo indicato i siti illegali di stoccaggio di altre armi e di materiale fissile al centro di un traffico con la Libia di Gheddafi, ma gli avrebbe rivelato che dietro la strage di Alcamo Marina si nasconda l’ombra di Gladio, la struttura semi-clandestina che nel trapanese poteva contare su un’ottima rete di appoggio.

Di Antonio Federico abbiamo già parlato spesso e, nonostante diverse occasioni di scontro, abbiamo rivisto la nostra posizione nei suoi confronti e ci siamo resi conto che – nonostante molte cose nei suoi racconti ancora non ci tornino – si tratta sostanzialmente di un uomo fagocitato da un gioco più grande di lui e, forse, utilizzato da chi di quel gioco conosceva le regole. Sentito pochi giorni prima della pubblicazione della relazione, Antonio Federico ha confermato a Ilgiornale.it che sì, in più occasioni ha riferito ai magistrati – e sicuramente al magistrato che nel 1997 era procuratore a Trapani, Andrea Tarondo, ma anche nel 2008 alla DNA di Palermo – la dislocazione nel trapanese di almeno tre siti di stoccaggio di materiale radioattivo, ma che nessuno sembra mai essersi davvero interessato alle sue parole.

Ma sorvolando per ora sull'ex ispettore Antonio Federico, torniamo alla relazione del gruppo di lavoro. Si elogia – giustamente – il grande sforzo investigativo compiuto. Uno sforzo che ha sopperito alle tante, discutibili mancanze della Procura di Trapani, che probabilmente avrebbe avuto gli strumenti per fare se non lo stesso, anche di più.

Uno sforzo, quello del gruppo di lavoro, che ha tentato di far luce su tanti misteri: non solo la connessione tra la strage del 1976 e la scoperta dell’arsenale del 1993, ma anche la connessione tra una foto ritrovata nel corso della perquisizione in quell’arsenale e la strage di via Palestro, a Milano, sempre del 1993.

Quello che nella relazione non viene indicato, tuttavia, è il retroscena di questa storia di cui abbiamo oggettivi riscontri. Ed è qui che l’avverbio “clamorosamente” trova la sua piena giustificazione. In effetti, ilgiornale.it è in grado di raccontare un aspetto inedito che riguarda i lavori di questa Commissione, un aspetto che per certi versi sta emergendo in questi giorni dagli articoli pubblicati su Il Riformista da Nicola Biondo, che di questa Commissione ha fatto parte e che quindi conosce bene i retroscena di questa storia.

Se è vero che – come si legge nella relazione – la Commissione “ha disposto di sottoporre a regime di secretazione gli atti formati e acquisiti nell’ambito del gruppo di lavoro, con l’auspicio che l’inchiesta possa essere proseguita dalla Commissione Antimafia”, è altresì vero che se i lavori dovessero proseguire, qualcosa andrebbe con molta probabilità rivisto.

Nonostante il “regime di secretazione”, infatti, possiamo affermare che nei mesi passati, mentre il gruppo di lavoro era, appunto, al lavoro, si è verificata una grave fuga di documentazione, una vera e propria emorragia. Quegli atti segreti sono in realtà circolati e sono entrati nella disponibilità di un numero imprecisato di persone. E, tanto per dirne una, il nome della presunta fonte segreta di Antonio Federico non è più un mistero.

Una fuga di documentazione resa ancor più grave dal fatto che a renderla possibile sia stato un esponente delle istituzioni, una persona che avrebbe dovuto avere a cuore il prezioso lavoro in svolgimento e che invece, senza una ragione chiara, ha provveduto alla diffusione di informazioni sensibili che, in almeno un caso, sono finite tra le righe di un articolo di giornale.

La fuga di notizie ha interessato anche ilgiornale.it, che stava seguendo da tempo le vicende legate alle stragi del 1993, ma che quei documenti si è ben guardato dall’utilizzarli. Non è sfuggita infatti la consapevolezza che il boccone, per quanto ghiotto, poteva rappresentare una polpetta avvelenata.

E avvelenata lo era sul serio, dal momento che tutta una serie di articoli scritti sulla vicenda oggetto dei lavori della Commissione – articoli scritti a seguito di interviste, ricerche e approfondimenti svolti in un ambito del tutto lecito e documentabile – sono finiti all’attenzione degli organi inquirenti su segnalazione, vedi a volte il caso, dello stesso soggetto resosi protagonista della fuga di notizie.

Quello che dispiace è che a questa manovra di accerchiamento sofisticata – ma fortunatamente disinnescata sul nascere – si sia prestato un dispositivo composto da altri giornalisti, con il risultato che – a distanza di 47 anni – sulla strage di Alcamo Marina resta una coltre di nebbia e di depistaggi che si perpetuano nel tempo come nella leggendaria fatica di Sisifo.

Bisogna rendere merito, allora, a chi di quella Commissione ha fatto parte e che, forse mosso da sdegno, ha deciso di aprire i cassetti. Per quanto riguarda noi, le prove di quanto sosteniamo ci sono.

Caso mai a qualcuno venga l’interesse di verificarle.

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