Politica

Nel regime dove manca l’«io» la libertà è compilare un modulo

«Il Giornale» organizza a Pechino una comica manifestazione per liberare i panda tristi. E scopre le serissime follie di un governo autoritario

La trovata di spedire Luciano Gulli, inviato del Giornale alle Olimpiadi, e farlo sottoporre alla trafila richiesta in Cina per una protesta con sfilata, è geniale. Non solo per l’invenzione di una manifestazione a Pechino per liberare i Panda dagli zoo che li renderebbero tristi. Quant’è più che divertente, interessante, è il ritratto perfetto di quanto per noi occidentali e la nostra cultura è assurdo, e invece pare ovvio in quei luoghi. Per la solerzia dei cinesi, anche la protesta va ridotta a una forma rigida, codificabile. Da noi si chiederebbe al più il percorso scelto dai manifestanti; in quell’ufficio d’Oriente invece il milite pretende, come gli hanno prescritto, ogni minuzia. Vuole gli siano spiegate le scritte sui cartelli, nonché gli slogan da declamarsi e i nomi dei manifestanti, persino del pubblico che assiste.
Tutto registrato, inviato alle autorità per illiberale permesso di libertà, la cui procedura è appunto ridicola: e basta a uccidere ogni libertà. La quale per l’appunto è in Occidente quella di manifestare, nel rispetto delle leggi, ma non in forma di recita prestabilita. Però, possiamo esserne sicuri: il milite non la sa, la differenza fra recita burocratica e fantasia di una protesta. Neppure la sapevano le guardie rosse, col libretto di Mao. E neanche il partito odierno la sospetta. Magari la teme; in ciò aiutato dal comunismo. Ma non è la politica stavolta a darci una vera spiegazione. È la disposizione innata che l’Oriente ha per le forme codificate, il panico che invade le anime fuori di esse, a spiegare tutto meglio.
La provocazione del nostro giornale offre insomma la maniera di capire la Cina con una causa originaria, preliminare. L’anima dell’Oriente è la debolezza dell’io. Quella stessa che risulta palese a chiunque abbia fatto affari in quei luoghi. Lo svolgersi di una trattativa cogli orientali è sinuoso, ha insidie e grandi eleganze. Ma ha rigidità di procedure e argomenti: un percorso già prescritto è la forza alla quale i cinesi, giapponesi più volentieri, si affidano. La si scombini, si cambi il quadro: li si vedrà bloccarsi, senza replica: persi. Un altro esempio sono le arti marziali orientali; tutte in ossequio a forme prescritte, katà che codificano attacchi, leve, proiezioni. Ripetuti sempre uguali, astratti; solo dopo calvari di anni messi in vera prova. Tutto all’opposto il pugilato occidentale. Pure in esso, certo, esiste lo sparring condizionato, la prova con un partner di un pugno e risposta prevista. Ma il più si impara sul ring, senza passi o forme rigide. Di qui la non sempre bella figura che i praticanti di arti orientali fanno, messi alla prova della strada, dove le loro mosse, prigioniere di schemi, funzionano meno che sul tatami.
Insomma l’Oriente non ha un io potente, ovvero una forza di morale, e di pensieri, libera come quella occidentale. Il difetto era almeno chiaro nell’Ottocento. Mill vedeva la Cina in difetto dell’io, e temeva che il capitalismo standardizzandosi avrebbe impoverito la fantasia del mondo, quindi premiato l’Oriente, come purtroppo è oggi. Non molto diverso quanto Teilhard de Chardin, teologo sublime, scriveva tra le due guerre nelle sue lettere da un interminabile soggiorno in Cina. Descriveva esasperante la monotonia di quelle anime, e vedeva che l’io, la scelta morale, era tra i cinesi propria soltanto di individui «terminali», incompresi dai connazionali. Come appunto sono i reduci di piazza Tienanmen. Né dovrebbe obliarsi Karl Wittfogel il quale, molto dispiacendo Stalin, spiegò che i comunismi novecenteschi non erano marxisti. I socialismi reali, a ragione gli parevano modi di produzione asiatici, ovvero dispotismi orientali.
Insomma la comica manifestazione contro la malinconia dei panda riconferma una serissima evidenza. In Oriente le anime inclinano al dispotismo, prese da forme plurali, talora estetiche, ma in patologico difetto dell’io.

Quanto del resto dovrebbe esserci chiaro almeno dal tempo dei Greci antichi.

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