Controcultura

Il neofemminismo finge di difendere le donne

Il sessismo, il patriarcato, il "metoo", la lingua: ma le vere discriminazioni sono altre

Il neofemminismo finge di difendere le donne

Sessismo: «Termine coniato nell'ambito dei movimenti femministi degli anni Sessanta del Novecento per indicare l'atteggiamento di chi (uomo o donna) tende a giustificare, promuovere o difendere l'idea dell'inferiorità del sesso femminile rispetto a quello maschile e la conseguente discriminazione operata nei confronti delle donne in campo sociopolitico, culturale, professionale, o semplicemente interpersonale» (dal dizionario Treccani). Il cuore del neo femminismo è qui: individuare forme di sessismo, vere o presunte, denunciarle e renderle inaccettabili agli occhi della società. Quanto a quelle vere, niente da dire: sono inaccettabili e vanno denunciate (oltretutto, spesso travalicano nell'abuso fisico e nella violenza). Dove il neo femminismo diventa tirannia è nel vedere forme di sessismo ovunque, anche dove non esistono, e nel trasformare presunte discriminazioni o offese in violazioni da condannare urbi et orbi. Perché «presunte»? Perché suonano tali solo a orecchie che abbiano una sensibilità neofemminista, ovvero propria di una minoranza che conduce una precisa battaglia ideologica. Il risultato è che chi non condivide la definizione di una situazione, una frase o un'opera come sessista, e non la condanna, ricade automaticamente fra gli accusati di sessismo.

Gli esempi sono molti. Di recente è spuntato il sessismo della toponomastica, ovvero il fatto che troppe vie siano dedicate soltanto a maschi, e pochissime a donne; per ovviare a questa ingiustizia davvero penalizzante nella quotidianità femminile, è stata stilata una lista delle città più «inclusive» quanto ai nomi delle vie. C'è il sessismo della lingua, per cui si invocano l'utilizzo di sostantivi al femminile, anche inediti, l'articolo al femminile prima delle cariche «neutre» (come presidente o premier), la reduplicazione talvolta eccessiva di maschile e femminile o perfino un escamotage surreale come lo schwa, come ha spiegato in maniera chiarissima il presidente della Crusca Claudio Marazzini la scorsa settimana su queste pagine. Qual è il principio sottostante? Che qualsiasi «asimmetria» del linguaggio penalizzi la donna. Risultato: Beatrice Venezi è stata attaccata dalle neofemministe perché preferisce farsi chiamare «direttore d'orchestra» anziché «direttrice». Giorgia Meloni è stata criticata perché preferisce farsi chiamare «il» presidente del Consiglio anziché «la» presidente. In quest'ottica, ciò che conta non è la realtà, ovvero che una donna abbia raggiunto un grande successo internazionale in un ambito tradizionalmente maschile come la direzione d'orchestra, o che l'Italia abbia, per la prima volta, una donna come premier: conta la forma linguistica, giudicata sessista perfino se a sceglierla, con consapevolezza, è una donna, che oltretutto nella vita pare avere superato ostacoli ben più difficoltosi e vinto battaglie ben più significative di una questione grammaticale.

La tirannia è quella che pretende di cambiare la storia e di riscriverla, chessò, proponendo un catechismo al femminile, un Dio cristiano femmina, dipingendo grandi uomini come degli inetti diventati eroi solo grazie alle mogli, scovando eroine dimenticate ovunque e rendendole protagoniste di romanzi, biografie, serie televisive, film... Purché, ovviamente, siano votate alla causa femminista, e non incarnino in alcun modo i valori del nemico. L'ideologia neofemminista ama difendere le proprie cause, come il metoo, da palcoscenici sobri come Hollywood, dove donne comunissime indossano, per qualche ora, abiti che costano come un normale stipendio annuo: però si lamentano moltissimo della disparità di trattamento economico fra maschi e femmine, del fatto che ancora poche donne siedano nei posti di comando, e del fatto che l'intero sistema che ha consentito loro di guadagnare soldi e successo senza paragoni sia iniquo e costruito sull'intollerabile discriminazione del patriarcato.

Quest'ultimo è uno degli obiettivi preferiti del neofemminismo. Non è che la battaglia contro un potere oppressivo non sia giusta, anzi. È che sembra quanto meno generico (quando non superficiale o pregiudiziale) definire l'oppressività del potere in base al sesso di chi lo detiene. E poi estendere tale definizione, negativa, a ogni ambito dell'espressione e della vita maschile: per cui il maschio in quanto maschio, e bianco in particolare, diventa il ricettacolo di qualsiasi nefandezza, come ha raccontato Bret Easton Ellis. D'altra parte accade che, quando una donna abbia incarnato, per esempio, un potere reale eccezionale, ma non abbia esplicitamente collegato il suo ruolo alla causa femminista - come Margaret Thatcher, o Elisabetta II - non venga considerata un'icona, perché è rimasta nel solco del patriarcato. Ma perché? Chi lo ha stabilito? Non è rimasta nel solco della sua vita e ha dimostrato, coi fatti, di riuscire in imprese storiche, però in quanto individuo, e non in quanto uomo o donna? È come quando bisogna invitare o premiare la scrittrice: non per la sua opera letteraria, ma perché è una donna. Dare un sesso alla letteratura non è sessista? Dare un sesso al potere che ci piace non è sessista? Dire che la parità (ma poi davvero le donne vogliono sentirsi pari rispetto agli uomini? Mah...) risieda nel farsi chiamare «la presidente» non significa proprio rificcarsi piedi e testa in quelle categorie da cui si pretende di non essere identificati?

L'ideologia neofemminista diventa tirannia perché non lotta per i diritti delle persone, che siano donne o uomini o che non si riconoscano in alcuna identità sessuale. A lottare per i diritti ci pensano le donne iraniane, uccise per un velo non indossato, o le pachistane, lapidate perché hanno la colpa di essere state stuprate, o le ragazzine somale, infibulate, che non hanno tempo di correggere i plurali.

La minoranza che si pretende oppressa si limita a giudicare seduta comoda in uno studio televisivo, mentre fa pubblicità al suo ultimo libro pubblicato da una casa editrice di proprietà di un uomo che, en passant, accusa di essere molto sessista.

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