Controcultura

Non ci sono più le élite di una volta...

Non ci sono più le élite di una volta...

In un periodo in cui molti saggi si esercitano nel capire il motivo per cui le élite hanno perso il loro tradizionale ruolo in Occidente, ve ne consiglio uno solo: La catastrofe delle élite di Antonio Pilati (Guerini e associati). Pilati, l'establishment lo conosce bene, perché lo ha sempre frequentato senza mai farne davvero parte: ha svolto ruoli importanti, da commissario antitrust a consigliere di amministrazione Rai, ma ha sempre (ve lo dice chi ha la fortuna di conoscerlo sin dai tempi della sua attività pubblicistica agli esordi del Foglio) avuto un occhio distaccato, un atteggiamento da outsider responsabile. Insomma, non si è fatto conquistare dai salotti delle élite.

La sintesi, molto semplificata, della tesi di Pilati è che la gente comune, in Occidente, è stretta in una tenaglia: da una parte la rivoluzione digitale, simile, per dimensioni e distruttività, a quella della macchina a vapore, e dall'altra l'ingresso sul mercato di miliardi di cittadini prima esclusi (la Cina è il caso più eclatante). In questo contesto si assiste «ad una divaricazione tra classi dirigenti e popolo, con pezzi di società che vivono in situazioni di disagio esistenziale più che economico». Non è il popolo che è arrabbiato, o meglio lo è anche il popolo, ma è il suo establishment che non ha saputo capire e governare «l'accelerazione tecnologica». Nota con ironia Pilati: «Per i vertici europei e i liberal americani, i leader revisionisti (Trump in testa) demonizzati come impresari del rancore e demagoghi da tweet, sono l'alfa e l'omega di un drammatico, ma in fondo accidentale, degrado politico da cancellare il più presto. In realtà il filo degli eventi non è così semplice: è molto più interessante». Sono figli piuttosto dell'incapacità delle classi dirigenti occidentali di comprendere il cambiamento e sono il risultato di un sistema democratico che negli ultimi decenni è stato un gioco tra simili, che in modo alternato si cooptavano alla guida della cosa pubblica. Saltano così le grandi e sofisticate architetture di organismi internazionali (Onu, Nato, Ocse, Wto...) e i partiti sono ritenuti, a buona ragione, fungibili e comunque «ben raccordati con istituti sovranazionali e organi di garanzia (corti costituzionali, autorità indipendenti, banche centrali) svincolati dal voto popolare, che corrisponde alla visione e agli interessi degli happy few».

Pilati nota una somiglianza tra questa rivoluzione e quella industriale. In questo caso l'«Europa si avviluppa in una duplice ideologia altamente ipocrita: sul piano economico professa un'ideologia mercantilistica che trasforma la maggiore area produttiva oggi esistente in una fabbrica di avanzi commerciali nociva per il resto del mondo; sul piano politico si dà l'aria di potenza mite che alla ragion di Stato sostituisce principi legali e prescrizioni giuridiche (diritti umani in primo luogo». Insomma, Pilati descrive magnificamente la contraddizione di una classe dirigente che «si pulisce la coscienza» della propria stabile conservazione e cooptazione, rincorrendo un approccio liberal su diritti umani e formali, che comunque non mettono in discussione la fonte del loro potere.

Intuizione ben argomentata e libro da leggere.

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