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"Non è lavoro per donne" Verdetto in Cassazione: sono accuse diffamatorie

Le critiche legate soltanto al "dato biologico" del sesso femminile da considerare diffamazione. Condannato chi dice "quel posto sarebbe meglio affidarlo a un uomo"

"Non è lavoro per donne" 
Verdetto in Cassazione: 
sono accuse diffamatorie

Roma -  Le donne non possono esser criticate solo per la loro appartenenza al genere femminile e non si può dire che, ad esempio, in un determinato posto di lavoro, sarebbe meglio sostituirle "comunque, con un uomo". Lo stop alle critiche nei confronti delle donne, sganciate da qualunque riferimento a fatti specifici e riferite solo al "dato biologico", sono lesive della dignità della persona e si pagano con la condanna penale e il risarcimento dei danni. Lo sottolinea la Cassazione confermando la condanna per diffamazione nei confronti di un giornalista e di un sindacalista per le critiche di genere che avevano rivolto alla direttrice del carcere di Arienzo (Caserta).

Il carcere e il direttore La Suprema corte ha ritenuto diffamatorio un’intervista pubblicata su un quotidiano locale di Caserta nel giugno 2002, intitolata "Carcere: per dirigerlo serve un uomo". Già di per séil titolo è stato ritenuto, sicuramente, offensivo e offensivo è stato ritenuto un passaggio dell’intervista fatta dal giornalista Antonio C. a un sindacalista della Cisl, Luciano D.M. che, parlando della situazione del Carcere di Arienzo diceva che per la struttura, diretta da Carmela C., "sarebbe meglio una gestione al maschile", senza ancorare questa affermazione a nessun elemento oggettivo. Senza successo il giornalista e il sindacalista hanno invocato il diritto di cronaca e quello di critica sindacale. Chiedendo di essere assolti e di annullare il verdetto emesso dalla Corte d’Appello di Salerno nel febbraio 2009.

Le motivazioni "In sostanza, la critica che viene mossa alla direttrice - continua la Cassazione - è sganciata da ogni dato gestionale ed è riferita al solo fatto di essere una donna, gratuito apprezzamento contrario alla dignità della persona perché ancorato al profilo, ritenuto decisivo, che deriva dal dato biologico dell’appartenenza all’uno o all’altro sesso". Giornalista e sindacalista sono stati, dunque, condannati per diffamazione e a risarcire alla direttrice 3.500 euro come riparazione pecuniaria oltre a un risarcimento danni di 7mila euro.

Nell’articolo il cronista aveva fatto un generico riferimento a una protesta, dell’agosto 2000, dei detenuti del carcere di Arienzo e alla lettera che essi avevano scritto denunciando le cattive condizioni di detenzione ricollegando il permanere di questo stato di cose alla presenza della direttrice dell’istituto penitenziario senza verificare alcunché. 

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