Letteratura

Le nuove frontiere dell'umanesimo digitale

Le riflessioni che segnarono la rivista di "cultura d'impresa" fondata da Sinisgalli nel 1953 si ripropongono ancora oggi

Le nuove frontiere dell'umanesimo digitale

«Ma, dimmi, per conoscere gli uomini devo passare attraverso di te, oppure, per conoscere te è meglio passare attraverso la conoscenza degli uomini?». In piena notte, all'ultimo piano del grande ufficio direzionale in cui è ambientato il romanzo Le mosche del capitale (1989), la luna pone questa spiazzante domanda al calcolatore elettronico, mentre i ficus ornamentali sono protesi all'ascolto del lamentoso monologo di un pappagallo originario della foresta amazzonica. Rileggere oggi il capolavoro di Paolo Volponi non è solo un reinterrogarsi sul nesso letteratura-industria, ma sul senso del rapporto uomo-tecnologia. Un legame che dall'inizio della terza rivoluzione industriale arriva a noi con l'immutata convinzione di Leonardo Sinisgalli, l'ingegnere-poeta fondatore della rivista Civiltà delle Macchine, e cioè che vi fosse (e vi sia) «una profonda simbiosi tra intelletto e istinto, ragione e passione, reale e immaginario». Una contaminazione, una sinestesia, che dagli anni Cinquanta arriva alla nostra quarta rivoluzione industriale ponendoci un interrogativo per certi versi analogo a quello di Volponi: per conoscere l'uomo devo passare attraverso gli algoritmi e l'intelligenza artificiale o viceversa?

Ero certo che anche Volponi avesse scritto su Civiltà delle Macchine, di cui quest'anno celebriamo i settant'anni. Mi sbagliavo. Eppure Volponi aveva condiviso con Sinisgalli un percorso simile: entrambi letterati, entrambi dirigenti di azienda (Sinisgalli in Olivetti e in Pirelli come art director prima di passare, nel 1953, alla Finmeccanica di Luraghi; Volponi direttore dei servizi sociali e del personale negli anni dell'«industrialismo illuminato» di Adriano Olivetti). Seppure non abbia trovato scritti di Volponi nel trimestrale diretto da Sinisgalli prima, e da Francesco Flores D'Arcais poi, nella rivista edita fino al 1979 ho riscoperto lettere e scritti di autori ad entrambi vicini: Franco Fortini, Carlo Emilio Gadda, Dino Buzzati, Giuseppe Ungaretti, tanto per citarne alcuni. Rileggere quei contributi è stato come aprire uno scrigno prezioso, oltre che la personale conferma che la ripresa delle pubblicazioni di Civiltà delle Macchine, quarant'anni dopo, sia una sfida ineludibile per un'azienda come Leonardo che è tecnologia e innovazione.

Riprendere in mano la rivista di settant'anni fa, dicevo, è stata la riscoperta di interrogativi filosofici, poetici, sociali che nel Dopoguerra hanno alimentato il più intenso e vivace dibattito attorno a quella iper-dinamica fase di industrializzazione che successivamente avrebbe lasciato spazio al dominio dei mercati e del capitale finanziario. La macchina «smemora» l'uomo? Si chiedeva Ungaretti nel primo numero di Civiltà delle Macchine, richiamando «problemi legati all'aspirazione di giustizia e di libertà»: «Come farà l'uomo per non essere disumanizzato dalla macchina, per dominarla, per renderla moralmente arma di progresso?».

Qualche numero dopo toccava a Franco Fortini, attraverso un raffronto tra la fabbrica americana e quella italiana, affrontare la questione dell'integrazione sociale, tema tanto caro a Volponi che ne scriverà con grave disincanto ne Le mosche del capitale. Come risolvere il problema dell'«ozio, se non della miseria» dell'operaio italiano in pensione? «Oggi - scriveva Fortini - l'era dell'energia atomica e dei cervelli elettronici annuncia forse la via di uscita da questa contraddizione; e forse non è lontanissimo il tempo nel quale sarà possibile rispettare l'infelicità soggettiva e cosciente, quando l'uomo avrà più di un lavoro, e quindi più possibilità di esprimersi, tanto nelle singole età della sua vita quanto nella loro successione». Viene quasi da sorridere rileggendo queste righe di Fortini, se si considera quanto poi realmente accaduto nel mondo del lavoro e quanto l'età pensionabile si sia allontanata per effetto di politiche di indebitamento totalmente ascrivibili a umane determinazioni. Vero è però che i cervelli e i calcolatori elettronici di Fortini e Volponi, seppure profondamente trasformati ed evoluti, sono tutt'oggi prepotentemente presenti. Vivono di noi e per noi.

Non esiste aspetto della nostra vita che non sia influenzato o coinvolto dal digitale: relazioni sociali, politica, comunicazione, commercio... L'antica macchina novecentesca era assai meno pervasiva rispetto all'immaterialità della mole di dati che viaggiano su cloud. Ce lo spiega assai efficacemente il presidente della Fondazione Leonardo, Luciano Violante, nell'ultimo numero di Civiltà delle Macchine, con un articolo che declina sette tesi su umano e digitale e la cui conclusione sembra rievocare il dilemma ungarettiano di settant'anni fa: «La costruzione dell'autonomia e del dominio della persona sull'algoritmo scrive Violante - è l'obiettivo da porsi nel presente per poter essere liberi nel futuro». Come non condividere questa affermazione? E come non domandarsi cosa accadrebbe se l'Intelligenza Artificiale, su cui si basano numerose produzioni industriali e tecnologiche, assumesse decisioni autonome, svincolate da quanto immaginato dal programmatore, dal produttore o da qualsiasi volontà umana.

In definitiva, a ben riflettere, quella domanda al calcolatore elettronico, che «guida e controlla, concede, rincorre, codifica, assume e imprime», resta più che mai attuale: «Per conoscere gli uomini devo passare attraverso di te, oppure, per conoscere te è meglio passare attraverso la conoscenza degli uomini?». Volponi non esaudì la curiosità della luna alla quale, anzi, il calcolatore rispose con un'altra domanda: «Ma tu cosa sai» degli uomini? «Nulla, li vedo», disse la luna. E così anche la «leopardiana» luna di Volponi avrebbe continuato il suo corso senza soffermarsi sugli interrogativi rivolti dall'uomo. Anzi, dalla macchina sostituitasi all'uomo.

* Presidente di Leonardo Spa

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