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Oggi in edicola col Giornale Il testamento di Mussolini

Ecco il "Testamento politico" che il Duce affidò a una lunga intervista realizzata il 22 aprile 1945, sei giorni prima di morire: un documento unico che raccoglie sfoghi, delusioni, paure e rimpianti. E da mercoledì in edicola le memorie di Quinto Navarra, il cameriere del Duce

Oggi in edicola col Giornale 
Il testamento di Mussolini

Nel pomeriggio del 20 aprile 1945 Mussolini concesse un'intervista a un suo fedelissimo - Gian Gaetano Cabella direttore del Popolo di Alessandria - che s'era distinto per violenza nella polemica antibadogliana. Due giorni dopo, l'intervista fu dallo stesso Mussolini riveduta e corretta. Un documento genuino che davvero può essere considerato, e che il Duce considerò, un testamento politico. Fu pubblicato nel 1948 - tre anni dopo la morte di Mussolini, in ossequio a quanto da lui stabilito - ed è stato dopo d'allora poco utilizzato, tanto da apparire quasi inedito. A torto. Perché si tratta d'una testimonianza autentica tra tante dubbie o false che circolano, e perché le parole che vi sono registrate venivano da un uomo che sei giorni dopo sarebbe stato appeso ai ganci del distributore di benzina di piazzale Loreto a Milano.

È impressionante e stupefacente insieme ricordare come Mussolini abbia dilapidato il tempo trascorso nella prefettura di Milano dopo che ci era arrivato dal Garda. Si tenevano riunioni inconcludenti contrassegnate da formalità grottesche mentre il regime - o ciò che ne restava - crollava nel disordine. Carlo Alberto Biggini, ministro dell'Educazione nazionale di Salò, fu ricevuto il 22 aprile - lo stesso giorno in cui il Duce approvò l'intervista di Cabella - e ha raccontato nelle sue memorie d'avere conferito con lui «attorno alle cose più urgenti». Che erano «la nuova legge sui maestri, definitivamente concordata e approvata, e una comunicazione da fare alla radio di quanto da me realizzato in quest'ultimo anno per il completamento e potenziamento dell'università di Trieste». Un'atmosfera d'incubo trasognato, nella quale l'angoscia dell'imminente fine e i proclami di resistenza a oltranza s'intrecciavano al surreale svolgimento d'incombenze burocratiche.

Cabella, a dimostrazione di come le testimonianze possano divergere, trovò Mussolini «benissimo in salute, contrariamente alle voci che correvano». «Il colorito appariva sano e abbronzato, gli occhi vivaci, svelti i suoi movimenti». Di parere opposto il medico tedesco dottor Zachariae secondo il quale Mussolini «dimostrava un'assoluta mancanza di energia e di intelligenza, non mangiava e non dormiva quasi più». Certo sembrano piuttosto incongrue, in quella vigilia d'orrore, le parole con cui Mussolini accolse Cabella: «Cosa mi portate di bello?». Di bello non c'era nulla per lui, le armate angloamericane irrompevano nella pianura padana, nel Clnai prevaleva il parere che fosse meglio vederlo giustiziato piuttosto che prigioniero degli alleati. Restavano due sole possibilità, la morte eroica o una resa con condizioni. I dilemmi erano tremendi, ma Cabella indugiò a mostrare i numeri speciali con cui il suo giornale s'era scagliato contro gli infami del 25 luglio, «Stellassa» (Umberto II), «Pupullo» (Badoglio) e «Bazzetta» (Vittorio Emanuele III).
Cabella voleva sapere cosa Mussolini pensasse della situazione, e la risposta fu che erano in corso trattative e che intermediario era l'arcivescovo di Milano cardinale Schuster. «Vi fidate del cardinale?», chiese Cabella. «È viscido ma non posso dubitare delle parole di un ministro di Dio», replicò Mussolini che non aveva del tutto dimenticato i trascorsi anticlericali. «Ho l'assicurazione che noi sarà versata una goccia di sangue». Quanto si sbagliava.

Un testamento autodifensivo. Nel quale Mussolini rivendica l'inevitabilità dell'entrata in guerra. «Non ebbi pressioni da Hitker, Hitler aveva già vinto la partita continentale, non aveva bisogno di noi». Sul punto Mussolini aveva ragione. Ne aveva meno quando affermava che tutti lo sollecitavano all'intervento. Ancora in quel suo cupo tramonto il Duce cullava sfondi millenaristici, auspicava e insieme rimpiangeva un'Europa divisa in due, Nord e Nord-est a influenza germanica, Sud-est e Sud-ovest a influenza italiana. E ribadiva, potendo contare su un ascoltatore devoto: «Non ho bluffato quando affermai che l'Idea Fascista sarà l'dea del secolo XX. Non ha assolutamente importanza una eclissi anche d'un lustro, anche d'un decennio». Pronosticava una terza guerra mondiale: «democrazie capitalistiche contro bolscevismo capitalistico». Bisogna riconoscere che in questa profezia c'era un barlume di verità, solo che la guerra tra democrazie e comunismo è stata fredda.
Considerazioni tutte autodifensive, ripeto, ma di diverso livello.

Alcune improntate a un realismo rassegnato e orgoglioso insieme. Il Mussolini lucido della Storia di un anno scritta a puntate, anonima, ma lo stile era inconfondibile, sul Corriere della Sera: «Sono qui al mio posto di lavoro dove mi troveranno i vincitori. Lavorerò anche in Valtellina». Altre in sintonia con i deliri hitleriani, ma con minore convinzione: «Le armi segrete ci sono». E ancora, fantasticando: «Le famose bombe distruttrici sono per essere approntate. Ho, ancora pochi giorni fa, avuto notizie precisissime. Forse Hitler non vuole vibrare il colpo che nella assoluta certezza che sia decisivo». Mussolini non era un fanatico farneticante come il Führer del bunker di Berlino. Era un uomo capace di ragionare che in molti passaggi di questo documento sembra tuttavia vittima della sua stessa propaganda. Credibili invece le frasi in cui spiega d'essersi assolto il compito di guidare la vassalla Repubblica di Salò nella convinzione di potere così alleviare le sofferenze dell'Italia percorsa da eserciti stranieri.

Personalmente sono stato colpito, leggendo questo testamento, dalle ammissioni e dalle omissioni. Mussolini abbellisce o giustifica con pronunciamenti storici, in un'ora che non dovrebbe più consentirgli finzioni, le tragedie delle quali è stato artefice o partecipe. Non mi pare ci sia nel documento cenno di pentimento per le leggi razziali, un moto di rammarico e di pietà per i morti nella inutile e vile campagna di Grecia, per i soldati dell'Armir, per i combattenti d'Africa. Quelle infamie e quei sacrifici vengono diluiti in una prospettiva a lunghissimo raggio, già bollata come fallimentare dagli avvenimenti. In un personaggio che non era crudele, che aveva anzi doti di umanità, questa non è la dimenticanza del cinico. Questa è la rimozione di chi, consegnandosi ai posteri, vuol presentare se stesso come portatore d'un messaggio ideale valido per il futuro.

Non, beninteso, per il futuro e libertà.

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