Teatro

"Ora i giovani riscoprono il teatro"

Con "Sette a Tebe" il regista ha inaugurato il ciclo di classici dell'Olimpico di Vicenza

"Ora i giovani riscoprono il teatro"

Che ci sia bisogno di classici lo conferma il fatto che si sia arrivati alla 76esima edizione, che terminerà a fine ottobre, del Ciclo di Classici del Teatro Olimpico di Vicenza, sotto la direzione artistica di Giancarlo Marinelli. Il titolo del Ciclo di quest'anno è «Stella meravigliosa», ripreso da quello del romanzo omonimo di Yukio Mishima, a sottolineare che è dai classici che potrebbe risuonare la eco in grado di affrontare il dilemma tra conservazione e annientamento, creazione e distruzione, non solo del testo, ma del mondo come lo conosciamo. In cartellone otto produzioni, di cui cinque in prima nazionale, tra cui Viola Graziosi con Circe di Luciano Violante, Giuseppe Pambieri con Odisseo, Antonio Stefani con Gli americani a Vicenza tratto da Goffredo Parise e infine il tutto esaurito di Sette a Tebe ispirato alla tragedia di Eschilo e diretto da Gabriele Vacis che ha inaugurato il ciclo qualche giorno fa. Portato in scena dalla compagnia PEM-Potenziali Evocati Multimediali sarà in tournée: tra le prime date, Ragusa il 1 ottobre e dal 7 dicembre allo Stabile di Torino.

Che cosa ci dice oggi Sette a Tebe?

«L'avevo già fatto nel 1991, cioè 32 anni fa, nato anche lì da un saggio di scuola, ero direttore corso attori all'epoca alla Paolo Grassi in una classe molto brillante in cui tra gli altri c'era Giuseppe Battiston: era appena caduto il muro di Berlino, c'era aspettativa nei confronti di un mondo più comprensivo Agnelli aveva detto che il secolo che si stava preparando non sarebbe più stato Atlantico ma Pacifico. Ho rivisto i video del lavoro di allora per prepararmi a questo: era un canto alla fine della guerra e delle guerre».

E nel 2023?

«Lo stesso testo ci dice cose del tutto diverse: tutte quelle speranze erano illusioni. Abbiamo vissuto trentadue anni di progressivo inasprimento dei conflitti e sebbene abbia lavorato oggi con un gruppo di giovani come allora, quello che ne viene fuori è una sorta di disillusione. Il sottotitolo è Questo terribile amore per la guerra, che abbiamo ripreso da James Hillmann».

Paradossale o provocatorio?

«Presa d'atto della necessità. Se vogliamo perseguire obiettivi di pacificazione, dobbiamo tener conto di questo: non far finta che la guerra sia solo terribile, dramma, miseria, morte, impoverimento. Perché se continuiamo a farla significa che la densità di vita che genera, il conflitto, la battaglia sono qualcosa che appartiene profondamente a noi umani. Nello spettacolo raccontiamo questa consapevolezza, che nella generazione contemporanea si esprime in una preoccupazione per i limiti del pianeta. La mia generazione si preoccupava della morte dell'individuo o della morte di dio, e neanche Woody Allen si sentiva troppo bene, come diceva in una battuta: loro sono preoccupati per il pianeta e per l'umanità».

Tutto questo viene espresso attraverso il testo di Eschilo?

«Nel corso dello spettacolo ci sono parole di Eschilo, ma anche parole di Hillmann che esplicitano quel che sto dicendo e storie personali dei ragazzi: ho cercato di amalgamare il tutto in modo che Hillmann sembri Eschilo e che entrambi sembrino le parole dei ragazzi».

Questa nuova compagnia che lavora con lei, Pem, come si è costituita?

«Con loro ho lavorato per tre anni a scuola, a Torino, con Alessio Romano, Fausto Paravidino, Serena Sinigaglia e altri. Abbiamo concordato un obiettivo: uscire dalla logica del provino, dello sgomitamento per cui molto spesso i giovani vengono addestrati. Del Pestiamo più piedi possibile per affermare noi stessi. Esiste la solidarietà, esiste il gruppo: fondare insieme un'impresa per il bene di tutti. La mia generazione ha avuto la fortuna di non essere addestrata ad una competitività controproducente come questa: la nostra era una competitività che teneva conto di valori e contenuti che abbiamo cercato di riprendere qui».

Nel teatro oggi i ragazzi che cosa cercano?

«Un'esperienza. Se devo assistere, se devo essere spettatore di qualche cosa, per quello c'è Netflix. Il teatro non deve essere intrattenimento, perché un concerto di Blanco li intrattiene in modo imparagonabile e non possiamo competere».

Questo riguarda i giovani che vanno a teatro: ma ci vanno?

«Non solo ci vanno, ma hanno ripreso l'uso del dibattito. Porto in scena e nelle scuole uno spettacolo, che si chiama Risveglio di primavera che vede al centro suicidio e problemi adolescenziali. Dopo averlo visto, vogliono parlarne, discutere. Lo stesso vale per i classici. Abbiamo fatto la prima nazionale all'Olimpico, emozionante, grandioso, ma questo stesso spettacolo, Sette a Tebe, si può fare ovunque, non solo in una scuola, ma addirittura in una classe, perché gli attori sono addestrati a ogni situazione. Quando proponiamo ai più giovani i dialoghi tra Antigone e Creonte, loro rimangono un'ora a parlare di politica non come in un talk show, ma con vera passione: che cosa sia la giustizia, chi abbia ragione tra Giocasta, Eteocle e Polinice o cosa sia la fraternità».

E per i giovani che il teatro vogliono farlo, c'è spazio?

«C'è stata una lievitazione pazzesca nelle domande: per scegliere i 21 della scuola ne ho visti 580 e questo capita a tutte le scuole. Ma sono ancora pochi. In futuro serviranno molti più attori: per lavorare sull'umanità e sulle coscienze o su temi come i conflitti di genere o su soluzioni come la medicina narrativa.

Che le scuole di teatro si moltiplichino, che sempre più ragazzi si iscrivano».

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