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Orlandi, ultimo mistero Muore il killer "nero"

Giallo a Nairobi sulla fine di Antonio D’Inzillo. L’ex Nar, latitante dal ’93, uccise il boss De Pedis che avrebbe sequestrato la ragazza romana. Il corpo cremato dopo mezz’ora. Per la polizia faceva il mercenario in Kenia e avrebbe lavorato in segreto per il presidente dell’Uganda

Orlandi, ultimo mistero 
Muore il killer "nero"

Il killer più spietato della Banda della Magliana, l’assassino del superboss del caso Orlandi, ha smesso di scappare. Con buona pace di tutti quei criminali romani che solo al pensiero se la fanno ancora sotto. Dopo quindici anni di latitanza, in circostanze oscure, è morto Antonio D’Inzillo, ex estremista dei Nar, capostipite di quella «paranza» nera che abbandonò la lotta armata per abbracciare la causa meno nobile della criminalità comune. D’Inzillo era scomparso dal 1993 allorché riuscì a fuggire all’estero schivando il mandato di cattura dell’operazione «Colosseo» che disarticolava la «Bandaccia» e lo inchiodava per l’omicidio di Renatino De Pedis, il capo dei «testaccini» di cui oggi tanto si parla per la tomba nella cripta della chiesa di Sant’Apollinare e per un asserito coinvolgimento nel sequestro di Emanuela Orlandi.

Secondo le rare indiscrezioni trapelate in procura, a Roma, D’Inzillo è deceduto tempo fa in un ospedale di Nairobi, ma il corpo è stato frettolosamente cremato, dunque non potrà mai essere a disposizione della magistratura che l’aveva rintracciato mesi fa a Kampala, in Uganda, attraverso l’ascolto delle conversazioni sul telefono della moglie Barbara e dei familiari di quest’ultima. Una morte che presenta moltissimi lati oscuri (per i familiari si tratta di morte per problemi al fegato), così come oscura è tutta la sua avventurosa latitanza culminata con un misterioso agguato ai suoi danni al confine con il Congo: un killer gli ha sparato una pistolettata in faccia, a bruciapelo, ma il proiettile è passato per la mandibola senza colpire organi vitali.

Da quel giorno il fantasma di D’Inzillo è stato più facile da tenere d’occhio per via di quella lunga cicatrice che gli squarciava la guancia. Pedinarlo, però, era praticamente impossibile visto che prestava la sua opera in un’azienda agricola di proprietà del presidente Museveni ed era indirettamente in affari, nella gestione di uno sporting club, con familiari del fratello dello stesso presidente. Sarà stato anche per queste importanti amicizie, oltre a quella con un religioso cattolico locale, che D’Inzillo viveva tranquillo, al riparo da qualsiasi richiesta di estradizione che l’Uganda, nel caso, avrebbe certamente respinto.

Il killer del boss De Pedis negli ultimi anni avrebbe lavorato al servizio di apparati governativi come coordinatore militare di attività segrete, assolutamente illecite, quali la raccolta e il trasporto di legname rubato in territorio sudanese oltre al traffico di particolari risorse minerarie, come l’oro del Congo. Avrebbe ricoperto anche un ruolo nei rapporti con il Lord Resistance Armi, organizzazione paramilitare d’ispirazione cristiana specializzata in scorribande oltre confine, sovrintendendo i gruppi armati a difesa dei lavori per la costruzione di strade, partecipando come consulente alla costruzione di una diga. Precedentemente, però, viene segnalato in Kenia al servizio di due gruppi paramilitari.
Ufficialmente nessuno, nemmeno sua moglie, sapeva chi era veramente quell’«italiano» così a suo agio in Uganda. Nemmeno il suocero: «Ci aveva detto che aveva dei piccoli problemi in Italia dovuti a un vecchio incidente automobilistico - spiega al Giornale - e che per questo preferiva non tornare. La cosa non mi convinceva, ho provato a saperne di più ma non conoscendo il vero nome, è stato impossibile. Comunque era un ragazzo d’oro, meraviglioso, un marito ideale per mia figlia. Certo, quando ci ha chiamato la polizia e ci ha detto chi era veramente, sono rimasto senza parole».

Latitante dal 1993, ergastolano definitivo insieme a Marcello Colafigli (condannato invece a 31 anni) per aver ucciso Renato De Pedis il 2 febbraio 1990 in via del Pellegrino a Roma, D’Inzillo partecipò al tentativo di fuga di alcuni detenuti «neri» dal carcere di Rebibbia nel 1989. Era stato poi inquisito sia per la morte di Patrizia Spallone, figlia del noto medico Ilio, deceduta per uno strano incidente stradale a seguito di una violenta discussione in auto, sia - quand’era minorenne - per l’assassinio dell’impiegato Antonio Leandri, bersaglio sbagliato del gruppo di fuoco, «scambiato» per l’avvocato Giorgio Arcangeli, difensore di estremisti di destra e considerato un traditore.

A torto o a ragione, D’Inzillo è un personaggio che ha fatto sempre discutere. Gli hanno accollato delitti che, per sentenza, non ha commesso. È sempre stato temuto nell’ambiente.

Il pentito Vittorio Carnovale, al processo Pecorelli, ha invece ammesso di aver evitato di fare il suo nome quale autore dell’omicidio De Pedis (insieme al defunto Dante Del Santo) perché «riteneva D’Inzillo - così scrivono i giudici - assai pericoloso in quanto latitante, dunque capace in ogni momento di vendicarsi sui suoi familiari».

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