È un terremoto del nono grado quello che ieri un gentile giudice in pensione con le orecchie a sventola di nome Eliahu Winograd (nella foto) insieme ai suoi quattro anziani compagni, ha causato in Medio Oriente con il suo rapporto di 218 pagine in cui la parola «fallimento», cheshel (tre consonanti in ebraico, caf, shin, dalet), è ripetuta 166 volte. Ma non hanno capito bene gli Hezbollah, che hanno trasmesso parola per parola, in traduzione simultanea, le espressioni di condanna per il Primo ministro Ehud Olmert (nella foto), il ministro della Difesa Amir Peretz e l’ex capo di Stato Maggiore (che si è dimesso già da tempo) Dan Halutz che Winograd ha pronunciato. Non possono capire, con la testa piena di retorica, di odio, di prepotenza, le parole nette, semplici, inequivocabili, senza giochetti, inganni, senza pietà o compiacenza, che non risparmiano accuse di inefficienza, di ignoranza, di irresponsabilità a coloro che siedono sui più alti scranni del potere... Mentre il vecchio giudice parlava piano, con stile pulito, senza aggettivi, mentre Olmert con gli occhi sempre più gonfi lo fissava rosso in viso, Al manar, la tv di Nasrallah, miserabilmente mandava in onda una palla da biliardo che butta giù una serie di birilli su cui sono effigiate le facce dei leader israeliani, la sigla del trionfale programma che certo ha avuto molti emuli in tutto il Medio Oriente. Israele si autocritica fino a sanguinare, che soddisfazione. Anzi: quale vittoria, hanno certo pensato i vicini di Israele.
Nel mondo di quasi un miliardo di persone che circonda la minuscola democrazia mediorientale, 7 milioni abitanti, dalle case oltre il confine in cui criticare il potere equivale alla pena di morte, alla tortura, alla prigione, in un mondo in cui ancora oggi gli egiziani credono seriamente di avere vinto la guerra del 1973, e in cui di tutte le sconfitte si accusa la congiura ebraico-americana rifiutando riflessione e autocritica, gli hezbollah invece di rallegrarsi tanto avrebbero forse dovuto domandarsi come mai pur di restare fedeli alla verità le istituzioni israeliane, per loro stessa decisione, si flagellano. E noi stessi possiamo chiedercelo con preoccupazione, certo, ma ricavando da questa vicenda soprattutto l’idea che la parola democrazia è coniugabile con democrazia, a differenza di quello che tanti pensano o pretendono di pensare.
Il grande storico del Medio Oriente Bernard Lewis spiega bene come la rovina economica e culturale, il totale declino del mondo arabo è proprio nato dal rifiuto dell’Islam di cercare dentro di sé le risposte sulla sconfitta dall’Occidente dopo i primi sette secoli di grande dominazione: dogmatismo, vittimismo, trionfalismo, millenarismo religioso unito a selvaggi costumi di aggressione terrorista, questo è stato il risultato di secoli di negazione delle proprie difficoltà, mentre l’Occidente fioriva.
Adesso lo stato d’animo a Gerusalemme, a Tel Aviv, a Haifa, si capisce, è oltremodo eccitato e anche confuso: sono spietate le accuse a Olmert di non avere soppesato con ponderatezza cosa significava la guerra, di esservi entrato impulsivamente senza aver chiaro l’andamento e gli scopi della guerra, di aver ciecamente seguito le indicazioni di Dan Halutz di gestirla dall’aria senza aver studiato le alternative. È micidiale l’accusa a Peretz di aver occupato il suo ruolo da incompetente, senza neppure provarsi a capire. È definitiva l’accusa a Halutz di aver immaginato una vittoria dall’aria praticabile solo nella sua fantasia di ex capo dell’aviazione.
Israele è già in piazza da queste ore per chiedere le dimissioni di questo governo, specialmente alla luce della possibilità di una nuova guerra, che non può essere affrontata da questa leadership. Olmert e Peretz hanno fatto sapere che non intendono andarsene, ma come potranno resistere alle accuse dei loro giudici, come ai genitori dei ragazzi uccisi in battaglia negli ultimi giorni e ai soldati delle riserve che troppo tardi sono stati mobilitati senza preparazione adeguata? Tzipi Livni, Bibi Netanyahu, Ehud Barak, altri politici non implicati o meno implicati (tutto il governo votò la guerra) nelle responsabilità di questa guerra cominciano a prepararsi all’agone politico. Intanto l’esercito già da tempo ha dato il via a un lavoro di radicale revisione. Ma la commissione Winograd pone due problemi sostanziali: il primo è quello di decidere con i piedi di piombo, con piani precisi e consistenti quando è il momento di combattere. Il secondo è che il nemico fanatico e ben armato dall’Iran non deve essere sottovalutato più.
Winograd insomma dice che in Israele era ormai viva l’illusione di poter vivere evitando ogni guerra nonostante il fallimento di Oslo e nonostante che gli hezbollah avessero seguitato a bombardare il Paese anche dopo il ritiro del 2000. È parso che pensare la pace fosse equivalente a farla, sostiene Winograd.
Fiamma Nirenstein