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"La Padania è nata in casa mia ora rivoglio la Serenissima"

Ranieri Da Mosto, il patrizio veneziano discendente del navigatore che nel Quattrocento scoprì le isole del Capo Verde: "Sarkozy ci deve 1.033 miliardi di euro. E Formigoni restituisca le tele di Brera rubate da Napoleone"

"La Padania è nata in casa mia 
ora rivoglio la Serenissima"

Se il suo antenato Alvise da Mosto (1432-1488), navigatore ed esploratore partito dal Canal Grande, ebbe il merito di scoprire l’arcipelago del Capo Verde, il patrizio veneziano Ranieri da Mosto può attribuirsi quello d’aver intravisto in largo anticipo sui tempi il Capo Verde per antonomasia, Umberto Bossi, e non solo dal colore di camicie, cravatte e pochette. Correva l’anno 1996. La Lega Nord, sbertucciata dall’universo mondo, aveva appena costituito il Governo Sole, in opposizione a quello di Roma, e cercava a Venezia, preconizzata capitale della Padania, il suo Palazzo Chigi. Incurante dei sorrisini di compatimento che si sarebbe attirato nei salotti, il nobiluomo non ebbe esitazioni: «Vi metto a disposizione Palazzo Muti Baglioni, casa mia».

Chiamala casa. Intanto è talmente importante che dà il nome alla strada in cui si trova, calle dei Muti o Baglioni, nel sestiere di San Polo, vicino al ponte di Rialto, proprio di fronte all’abitazione di vacanza dello stilista francese Pierre Cardin, «me racomando, se dise Cardìn, no’ Cardèn, xe nato a San Biagio de Callalta». Poi è in assoluto l’edificio più alto di Venezia, campanili a parte: «Sette piani, 24,60 metri al cornicione, 29 col tetto», precisa da Mosto, che vi occupa tutto il piano nobile, «800 metri quadrati, più di 20 stanze», non s’è mai degnato di contarle: al Consiglio dei ministri della Lega fu riservata la più grande, «el portego», 22 metri di lunghezza per 7 di larghezza, 6,40 l’altezza del soffitto, roba che ci si potrebbero ricavare due appartamenti, e infatti il piccolo Cosimo, 14 mesi, l’ultimo dei sei nipotini del conte, ci scorrazza sul triciclo. Inoltre è l’unico a disporre di una cappella privata consacrata: «Potevamo celebrarci i matrimoni e i battesimi, ma i preti si rifiutano di venirci perché adesso sono obbligatori i riti comunitari».

Per non parlare delle opere d’arte: anche volendo tralasciare i dipinti della scuola veneziana del Tiepolo, basterà dire che nel Salone rosso (chiamato in famiglia la «sala del divorzio» per via delle scene allegoriche dipinte da Jacopo Guarana, l’affrescatore di Ca’ Rezzonico, raffiguranti il bene e il male nel matrimonio e i vizi e le virtù femminili) vi è il più grande specchio costruito in Italia nel Settecento sull’esempio della Galleria di Versailles. All’artigiano vetraio richiese talmente tanti anni di lavoro che la parte inferiore è in stile Luigi XV mentre la parte superiore fu ultimata in stile Luigi XVI, essendo nel frattempo cambiato il re di Francia. Figurarsi dunque la gioia di Ranieri da Mosto, 86 anni, erede di una delle famiglie del patriziato veneziano che detenevano il potere nella Repubblica veneta, per aver visto un leghista, Luca Zaia, finalmente insediato sul trono dogale che per 15 anni è stato occupato da Giancarlo Galan, e pazienza se «Zaia xe trevisan, Galan gera padovan, Carlo Bernini gera anca lu trevisan, Gianfranco Cremonese gera anca lu padovan, Angelo Tomelleri gera veronese, ’rivarà ben la ’olta de un venessian!».

Bisogna capirlo: citati fin dal 1118 nei documenti della Serenissima, per una trentina di generazioni i da Mosto hanno concorso alla scelta del doge o come candidati o come elettori. Il padrone di casa dei ministri padani ha già preparato la lista della spesa per Zaia. Punto primo: presentare ricorso alla Corte internazionale di giustizia dell’Aia affinché venga invalidata per mancanza del numero legale la seduta del Maggior Consiglio che il 12 maggio 1797, essendo doge Ludovico Manin e «con l’unico voto contrario del mio avo Zan Alvise da Mosto», sotto la pressione delle armi cedette Venezia a Napoleone, che subito la svendette all’Austria. Punto secondo: farsi restituire dalla Francia tutti i tesori trafugati dalla soldataglia bonapartista, a cominciare dalle venetissime Nozze di Cana del Veronese e dalla venetissima Cena in Emmaus di Tiziano Vecellio, oggi al Louvre. Punto terzo: costringere il presidente Nicolas Sarkozy a restituire a Venezia l’equivalente di 2 milioni di miliardi di vecchie lire, «comprensivi di interessi e rivalutazione dal 1797 a oggi». Punto quarto: obbligare la Pinacoteca di Brera a rimandare in laguna i 41 dipinti «che Napoleone arraffò nel 1811 e consegnò ai suoi fedeli tirapiedi milanesi». Punto quinto: far risorgere la Serenissima Repubblica o, in alternativa, trasformare almeno Venezia in uno Stato indipendente. Utopie? Meglio non sottovalutare le capacità divinatorie del patrizio veneziano. L’ultima volta che il conte da Mosto, all’epoca giornalista nella redazione di Venezia della Rai, si dedicò a un’utopia, 35 anni fa, di lì a qualche mese ebbe la soddisfazione di vedersela stampata sulla Gazzetta Ufficiale come legge dello Stato. «Si trattava della famosa riforma della Rai. Che è nata qui, sul tavolino dove ora lei appoggia i gomiti. Erano due fogli buttati giù a mano e poi ricopiati a macchina da me medesimo. Non scrivo mai tanto, la gente si stufa a leggere. Il promemoria mi era stato chiesto dall’onorevole Giorgio Bogi, che si occupava di emittenza radiotelevisiva per conto del Pri. Decisi di prevedere una prima rete filogovernativa, una seconda che non fosse né carne né pesce, una terza spenzolata a sinistra. E così fu fatto. Bogi è ancora vivo, può chiedergli conferma».

Da Mosto ha sempre vissuto nelle proprie carni una contraddizione: da una parte fervente serenissimo e dall’altra sospettabile di collusione con i nemici d’Oltralpe, essendo nipote per via materna di una nonna che era cugina dell’imperatrice Eugenia de Montijo, moglie di Napoleone III, ultima sovrana di Francia dal 1853 al 1870.

Peggio ancora: è un leghista con mezzo sangue terrone, avendo suo padre Andrea sposato Eugenia de Vito Piscicelli, originaria di Napoli. Come se non bastasse: nel 1956 convolò a nozze con la nobildonna Maria Grazia Vanni d’Archirafi, appartenente sì a un’illustre famiglia ducale, ma purtroppo di Palermo anziché di Venezia, dalla quale ha avuto due figli, Marcandrea, laureato in economia alla Columbia University, e Francesco, volto noto della Bbc.

Come mai mise a disposizione della Lega il suo palazzo?
«Sono in politica da quando avevo 19 anni. Il 25 luglio 1943, alla caduta del fascismo, il primo congresso clandestino del Partito d’azione si tenne in queste stanze. Per una vita ho militato nel Pri. Ma poi mi sono reso conto che solo la Lega poteva rinnovare il Paese. Ho accettato di candidarmi e sono stato eletto consigliere comunale. Bossi voleva trovare una sede in terraferma per il nostro governo. Mi opposi: giammai! E così la Padania nacque in questa casa. Il Senatùr teneva in braccio la mia nipotina Delia, che avrà avuto meno di due anni. Oggi sembra folclore. Ma allora non fu una cosa facile».
Immagino.
«Non le dico i musi lunghi degli altri nobili radunati nel Circolo dell’Unione, di cui ero presidente. Anche adesso. Il commento più benevolo: “Ma de cossa valo in çerca questo?”. Ero inviso a tutti, compreso il mio unico fratello, Antonio, che essendo partito dal Pli, poi passato con i radicali e infine approdato al Psi non tollerava un secessionista nel parentado. Ho cercato di non soffrirci troppo. Da trent’anni tenevo esposto al balcone il vessillo col Leone di San Marco. Quel giorno fu rimpiazzato dalla bandiera col Sole delle Alpi. Alla prima seduta del Governo Sole, casa mia era assediata dai missini del Fronte della gioventù. Arrivarono alcuni facinorosi in barca e tirarono una bomba molotov contro uno dei portoni d’acqua. I carabinieri, poarèti, non avevano neanche un natante per inseguirli. Fortuna che l’avvocato Giorgio Suppiei, mio amico, passava in quel momento col suo motoscafo e riuscì a spegnere le fiamme con un po’ di secchiate tirate su dal rio San Cassiano».
Non si vergogna a partecipare al rito dell’ampolla in Riva degli Schiavoni, con versamento dell’acqua del Po nella laguna?
«Le liturgie servono per avvicinare la gente alla sostanza. Sono stato due o tre volte anche al raduno di Pontida, se è per quello, e senza mai sentirmi a disagio. L’idea ha fatto strada al di sopra dei nostri desideri, questa è la verità».
Fu la Liga il primo movimento autonomista. Non dovrebbero essere i veneti a comandare sui lombardi, anziché viceversa?
«Guardi, in effetti la Lombardia fu creata con lo Stato italiano in una maniera piuttosto strana. Sul confine del Parco dello Stelvio c’è Cima Venezia, non Cima Milano. In Val Camonica esiste un paese che si chiama Cedegolo. La Serenissima nel 1441 acconsentì che fosse consegnato a un signorotto locale. “Ma sì, cedeghelo”, concesse il Doge, donde il toponimo».
Perciò?
«I bresciani, i bergamaschi, i cremaschi facevano parte della nostra Repubblica. Hanno una civiltà, una lingua, un dialetto diversi dai lombardi. Per cui il Veneto lombardo deve ritornare al Veneto».
Ma che cos’ha lei, nobile veneziano che viene da studi di giurisprudenza, in comune con Bossi, proletario lombardo che viene dalla Scuola radio Elettra?
«La voglia di secessione».
Da attuarsi come? Con i fucili?
«Con un ricorso alla Corte dell’Aia. È una causa non indifferente. L’avrei già avviata in proprio, se non occorressero soldi a palate per pagare gli studi legali di diritto internazionale. Ma è quella la strada maestra che ha portato Panama, per esempio, a liberarsi dal giogo degli Stati Uniti d’America, di cui era divenuta colonia. Confido in Zaia. Tutti i passaggi giuridici che il 12 maggio 1797 portarono all’abdicazione del doge Manin e alla svendita di Venezia all’Austria sono nulli».
Perché mancava il numero legale nella seduta del Maggior Consiglio.
«Anche: 580 presenti anziché 650. Ma non solo: il trattato di Campoformio stipulato da Napoleone con Francesco II, col quale territori indipendenti da 1100 anni, e cioè Venezia, il Veneto, l’Istria, la Dalmazia e le Bocche di Cattaro, furono regalati all’Austria e trasformati d’ufficio in Provincia veneta dell’impero austro-ungarico, è invalido in base al diritto all’autodeterminazione dei popoli. Che razza di trattato è senza il popolo? Al massimo è un tradimento. E frutto di un colossale imbroglio fu anche il successivo plebiscito del 20 ottobre 1866, imbastito nel giro d’una decina di giorni, che approvò l’annessione del Veneto all’Italia una volta cacciati gli austriaci».
Quello che si concluse con 641.758 sì e appena 69 no?
«Ma andiamo! Neanche in Bulgaria! Una truffa bella e buona. I Savoia comprarono i prefetti, intimidirono gli elettori, adottarono una scheda bianca per il sì e una nera per il no, il che cancellò la segretezza del voto».
Secondo Gian Antonio Stella i serenissimi hanno le loro radici «nelle lagne di quei patrizi come Ranieri da Mosto che vivono di rimpianti». Anche se poi la firma veneta del Corriere della Sera riconosce che Napoleone compì «uno sfregio insolente e gratuito» nel rubare financo il Leone che svettava da secoli su una delle colonne di San Marco, traslocato a Parigi per essere piazzato agli Invalides, da dove sarebbe tornato a casa 18 anni dopo, grazie agli austriaci, frantumato in 84 pezzi.
«Se avessimo 500 carrarmati, il discorso sarebbe diverso. Ma i 500 carrarmati per dispiegare un’azione più pesante nei confronti del consesso italiano e internazionale non li abbiamo, purtroppo. E quindi le nostre restano giocoforza lagne».
Come visse l’assalto al campanile di San Marco da parte degli otto serenissimi nel bicentenario dell’atto di morte della Repubblica veneta?
«Lo seppi per caso alle 8.30 del mattino. Mi vestii in velocità e corsi in piazza San Marco. Li avrei affiancati volentieri, ma purtroppo era già tutto finito. Che azione esaltante! Quel 9 maggio 1997 il premier Romano Prodi era in visita negli Usa. Il New York Times gli dedicò tre righe in tutto. Invece i serenissimi l’indomani occupavano mezza pagina. M’inchino alla memoria di Bepin Segato, l’ideologo dell’assalto, che Iddio gli conceda l’eterno riposo. Scrisse una pagina indelebile di storia patria. Né bastarono a piegarlo tre anni di galera. E furono un fatto prodigioso anche le interruzioni del Tg1. Ci vuole grande perizia tecnica, lo lasci dire a me che ho lavorato 35 anni in Rai, per intromettersi nelle frequenze della Tv di Stato. Eppure i serenissimi ci riuscirono. Senza contare la situazione giuridica creata dal loro eroico gesto».
Di che situazione giuridica sta parlando?
«L’assalto avvenne di notte e le teste di cuoio dei carabinieri arrivarono in piazza San Marco soltanto all’alba. Questo significa che per almeno otto ore la Repubblica italiana perse la sua sovranità sulla Repubblica veneta ripristinata dagli otto insorti. Mi commosse il fatto che dei popolani avessero serbato in cuor loro il ricordo della Serenissima, e coltivato per anni il sogno di farla rivivere, e si fossero preparati all’azione a prezzo di enormi sacrifici, incuranti dei pericoli, pronti a finire in prigione. I patrizi, diciamocelo, se ne fregano della Serenissima. Il popolo no! L’amore per la Repubblica è sempre stato più vivo nel popolo che nei nobili, a Venezia come a Rovigno, a Parenzo come a Perasto, la cittadina dei 12 gonfalonieri, oggi nel Montenegro, che si arrese per ultima il 23 agosto 1797 e che seppellì se stessa insieme col vessillo di San Marco al grido “Ti con nu, nu con Ti”».
Un discorso commovente.
«“Ma za che altro no’ ne resta da far par Ti, el nostro cor sia l’onoratissima to tomba, e el più puro e el più grande to elogio le nostre lagreme!”».
Però l’orazione fu tenuta dal capitano delle guardie, Giuseppe Viscovich, che se non ricordo male era un conte, come lei.
«Ci sono state lodevoli eccezioni anche nella nobiltà, non dico di no. Lei pensi solo al dialogo fra Giulio II e l’ambasciatore Giorgio Pisani, che appartenendo al patriziato poteva ambire a diventare doge e dunque si riteneva superiore a chiunque. Il collerico Papa Giuliano della Rovere, al quale la Serenissima aveva appena strappato i territori della Romagna, scagliò l’anatema sui veneziani: “Io non mi rimarrò grave, fino a che non vi abbia fatti umili, e tutti pescatori siccome foste”. E Pisani, imperturbabile, gli rispose: “Vieppiù vi faremo noi, Padre Santo, un piccol chierico, se non sarete prudente”. Me ne trovi un altro, in duemila anni di storia, che abbia saputo tener testa a un pontefice, addirittura minacciando di retrocederlo a seminarista».
Non si trova.
«Ecco che cos’ho sempre rimproverato a questa Italietta: d’essere di carta, troppo modesta, priva d’orgoglio. Esiste una dignità delle nazioni. Non dobbiamo imitare i francesi, che quando allargano la bocca per pronunciare “la Fraaance” si mettono sull’attenti. Ma, santiddio, un minimo di rispettabilità va mantenuta. Invece l’unità d’Italia è stata fatta solo sui debiti delle tre guerre risorgimentali, non sugli ideali. La Serenissima non aveva debiti. Nel Seicento il doge Francesco Morosini resistette per 23 anni ai turchi nella guerra di Candia senza aumentare le tasse. Piuttosto preferiva vendere il patriziato a gente danarosa. Oh, mica per due lire: stiamo parlando di 100.000 ducati, qualcosa come 300 milioni di euro di oggi. Venezia già nel Duecento possedeva la metà dell’oro di tutta la cristianità. E non s’era ancora espansa in terraferma. E si trattava d’una città di appena 140.000 abitanti, più piccola non solo di Parigi ma persino di Napoli».
Poi arrivò quel ladrone del Bonaparte.
«Si sa che fece la campagna d’Italia solo per depredarne le ricchezze. Venezia era la cassaforte. Napoleone rubò alla Serenissima 40 milioni di lire oro, di cui 15 milioni del Ducato di Modena depositati alla Zecca della Repubblica veneta. A valori di oggi calcoli 2 milioni di miliardi di lire italiane, cioè 1.033 miliardi di euro».
Che lei rivuole dalla Francia.
«Esatto. Li avrebbero dovuti pretendere i governi italiani che si sono succeduti finora, ma sono stati uno più vigliacco dell’altro. Per cui ne chiesi personalmente la restituzione già nel 1997 con lettera ufficiale al presidente Jacques Chirac. Nemmeno mi rispose. Adesso mi accingo a riformulare la stessa richiesta a Sarkozy. La Convenzione dell’Unesco approvata il 14 novembre 1970 all’articolo 11 parla chiaro: “Vengono considerati come illeciti l’esportazione e il trasferimento di proprietà forzati di beni culturali, risultanti direttamente o indirettamente dall’occupazione di un Paese da parte di una potenza straniera”».
Nel caso della Serenissima di che beni si tratta?
«Il tesoro di San Marco che era custodito nella basilica, a quel tempo cappella ducale. I dipinti e gli arredi sacri di 160 chiese veneziane. Migliaia di tele, sculture, specchi, vetrate, lampadari e oggetti preziosi delle scuole d’arte. I 470 manoscritti antichi asportati dalla Marciana. Un numero inestimabile di incunaboli, codici miniati e libri sottratti a biblioteche e istituti religiosi. L’intera flotta da guerra esistente nel 1797, una delle più importanti del Mediterraneo. I ricchissimi materiali dell’Arsenale di Venezia, tra i quali l’occorrente per equipaggiare 8 vascelli, 6 fregate e 5 cutter, 6.000 cannoni di vario calibro, 2.000 fucili e 6.000 pistole, interi depositi di vele e sartiami. Senza contare che mi aspetto da Sarkozy un adeguato indennizzo per la violenta soppressione della Repubblica di Venezia, declassata da millenaria capitale di uno Stato sovrano a modesta città di provincia».
Mi sa che fa prima a restituirle Carla Bruni.
«La Francia negli anni Novanta ottenne la restituzione di molti beni confiscati dalla Russia. Non può fare orecchie da mercante».
E rivuole anche i 41 quadri veneziani custoditi nella Pinacoteca di Brera.
«Li ho inventariati uno per uno. Lei sa come finirono in Lombardia? È presto detto. I nobili milanesi, a differenza di quelli veneziani, sono stati storicamente succubi di qualcuno, dei Visconti, degli Sforza, degli spagnoli, degli austriaci, sempre servi! Anche di Napoleone. Che, per compensarli della loro cortigianeria, gli regalò dipinti di Tintoretto, Mantegna, Tiziano, Paolo Caliari, Cima da Conegliano, Jacopo Bassano, Lorenzo Lotto, Palma il Giovane. Il nuovo governatore Zaia deve scrivere al suo collega Roberto Formigoni e pretendere che ci vengano restituiti».
Oggi di chi è Venezia?
«Di nessuno. Siamo rimasti in 59.000. Venezia è una Disneyland che è stata anonimizzata dal Pci. L’hanno svuotata dal di dentro e riempita di camere per turisti. I bed and breakfast non votano. Nelle sue edizioni rivedute e scorrette, occhio alla esse, il partito comunista ha deciso di distruggere quel poco che restava della Serenissima. I compagni hanno sempre odiato i veneziani. E guardi che sono stato staffetta partigiana dal 1942 al 1945, procurai ad almeno un centinaio di ricercati i documenti falsi che li salvarono dalla deportazione nei lager nazisti e fui arrestato dai fascisti. Nel dopoguerra ho provato a trattare con l’onorevole Gianmario Vianello, pace all’anima sua. Staliniano fino al midollo. I comunisti xe sempre comunisti, col ciodo in testa, no’ ghe xe santi. Possono chiamarsi diessini, ulivisti, democratici, rossi, verdi, zali, tuto quelo che ti vol: non cambieranno mai».
Ora che è finito il regno di Massimo Cacciari sarà contento.
«Sono stato con lui in Consiglio comunale per cinque anni. Se la prendeva con i suoi dandogli dei cretini in aula. Gli ho sempre votato contro, ma l’ho in simpatia. Lo considero un uomo di grande levatura. È l’unico che potrebbe fare il segretario del Partito democratico, non quei menarrosti di Bersani, D’Alema e Veltroni. Ma è scomodo persino per loro. Cacciari l’ha detto chiaro e tondo: “Farei il Pd del Nord, sull’esempio della Lega”».
Renato Brunetta, il figlio del venditore ambulante di gondoete, non ce l’ha fatta a prendere il posto di Cacciari, gli hanno preferito come sindaco Giorgio Orsoni. Come si spiega? Il ministro accusa la Lega di non averlo votato.
«Non c’entra. È che gli manca il look. In questo mondo di plastica l’immagine conta, purtroppo. E poi non dimentichiamo che l’avvocato Orsoni vive all’ombra della Chiesa, è primo procuratore di San Marco, si occupa della basilica e del campanile. È un cattolico di sinistra nella manica del cardinale Angelo Scola. Il patriarca, che non manca mai di ricordare d’essere figlio d’un socialista massimalista, è un politico, non è un religioso come il suo predecessore Marco Cé».
Scola mi ha spiegato che non bisogna opporsi a quello che lui definisce «meticciato di civiltà», perché «se un simile processo è in atto, significa che esprime la volontà di Dio».
«La Chiesa ha bisogno del meticciato perché non ha più clero locale, quindi deve reclutare i sacerdoti dove e come può. Un tempo il quinto o il sesto figlio dei veneti poveri si faceva prete, attirato da una rendita mensile pari a 5.000 euro di oggi. Adesso la Chiesa, già ridotta in bolletta dai Savoia, può passargliene al massimo 800. La religione è bella, ma senza soldi non sta in piedi. Per 800 euro un africano corre, un italiano no».
Perché è diventato giornalista quando poteva limitarsi a fare il nobile?
«Finita la guerra, mio padre, che era stato direttore dell’Archivio di Stato di Venezia, riscuoteva 1.150 lire di pensione. Un chilo di burro nel 1945 ne costava 2.000. Perciò cominciai a collaborare con la Rai. Era il 1952. La televisione ancora non esisteva. Le notizie radiofoniche dal Veneto finivano nel Gazzettino padano, in onda da Milano. Nel 1956 morì d’infarto il caporedattore Licio Burlini. Chiamai il collega Sergio Telmon, repubblicano, pregandolo di metterci una buona parola con Ugo La Malfa».
Ahi, ahi, lottizzato e raccomandato.
«La Malfa lo conoscevo dal 1946. Quando scendevo a Roma per la direzione del Pri, mi riceveva subito, non ho mai capito perché avesse tanta simpatia per me. Mi convocò nella capitale. Fuori dal suo ufficio faceva anticamera Guido Carli, futuro governatore della Banca d’Italia. Ricevette prima me. “Telefoniamo a Villi De Luca, ci deve qualcosa”, disse La Malfa. Formò di persona il numero sull’apparecchio, non si fidava a passare per il centralino, segno che gli spioni già allora si davano da fare. De Luca, un galantuomo che in seguito avrebbe diretto il telegiornale, fu assai comprensivo: “Oltre alla nomina, a da Mosto bisognerà riconoscere un aumento di stipendio”. Ma La Malfa, parsimonioso fino allo scrupolo con i soldi pubblici, lo stoppò: “No, no, può aspettare”. Risultato: per i primi cinque anni feci il capo della sede Rai di Venezia mantenendo lo stipendio di redattore ordinario».
Una fregatura per la pensione.
«Non me ne parli. L’Istituto di previdenza dei giornalisti mi versa 4.000 euro al mese. Per mantenere il monumento nazionale in cui ho la fortuna di vivere ne spendo 5.000. Il tessuto urbano di questa città risale al 1300. La legge speciale per Venezia prevedeva che lo Stato aiutasse i proprietari di dimore storiche. Con la scusa dell’emergenza acqua alta, non arriva più un euro. Ha rastrellato tutto il Mose, il sistema di paratie mobili. Un carrozzone pazzesco che continua a ingoiare soldi. Mi sa che non finiranno mai di costruirlo».
Lo scrittore Gian Mario Villalta è convinto che gli italiani percepiscano il Nordest come «una landa disertata dalla civiltà e dalla cultura, dove vivono tristi umanoidi dominati dall’avarizia e dalla xenofobia». Ha idea del perché i veneti siano antipatici a tutti?
«Semplicemente perché lavoriamo tanto. Siamo ancora un popolo serio rispetto alla media italiana. Il governo nazionale sa che qui gli basta un dito per comandare, non occorre il bastone. Il veneto si alza alle 6, lavora fino alle 19, cena, guarda un po’ di televisione, va a letto e la mattina dopo si rialza per tornare al lavoro. In Rai io facevo orari folli, 15-18 ore al giorno. Quando vi fu l’alluvione del 4 novembre 1966, la più disastrosa in mille anni di storia, un metro e 90 di acqua alta, telefoni saltati, linee elettriche interrotte, un nostro tecnico andò in cerca di un generatore di corrente finché non lo trovò e con quello lessi la mia radiocronaca, a lume di candela, informando l’Italia che stavamo affondando. Fosse accaduto a Roma? Non lo so. A Roma casca el matòn e i lo lassa par tera».
È per questo che ai veneti sono antipatici i terroni?
«Un veneto s’innamora del lavoro perché in esso trova la dignità. Un meridionale cerca solo la paga. Il veneto vuole costruire. La vita è costruzione, non è distruzione. S’è mai chiesto perché le donne venete sono molto attive?».
Mi sono chiesto sul Giornale come mai tutti gli ori femminili alle Olimpiadi o nelle gare mondiali vengano vinti da campionesse nate in questa regione: Federica Pellegrini, Dorina Vaccaroni, Novella Calligaris, Sara Simeoni.
«Lei pensi solo al ruolo che aveva la donna sotto la Serenissima, in particolare a Venezia. Col marito per mare otto mesi l’anno, tutto era nelle sue mani: la cura dei figli, il governo della casa, i contratti di proprietà. Godeva di un’autonomia che nessun’altra donna del suo tempo aveva. Questa è la culla della libertà, nel Settecento in piazza San Marco vi erano 200 casini, non quelli di oggi, luoghi d’intrattenimento dove le signore potevano conversare alla pari con i maschi. Uno apparteneva alla mia bisnonna, Anna Gardi».
Allora un motivo c’è se le veneziane vengono ancor oggi sospettate d’essere donne di facili costumi.
«Vede, purtroppo col saccheggio dei napoleonici, la flotta sequestrata, i commerci bloccati, Venezia moriva di fame. Un giornalista francese arrivato qui nel 1811 scoprì che la città aveva perso 30.000 abitanti e che metà dei veneziani girava per calli e campielli a chiedere l’elemosina, quando appena 15 anni prima il loro tenore di vita era quattro volte superiore alla media europea. In queste condizioni che altro potevano fare le madri se non vendere le loro figlie per strada? Lord Byron, che soggiornò a Venezia fra il 1816 e il 1819, ne comprò una quarantina. E lo stesso Jean Jacques Rousseau, santificato dai giacobini come apostolo dell’infanzia, si prese una veneziana di 10 anni per vincere la depressione. Poi parlano tanto di pedofilia...».
Non mi ha spiegato come mai i veneti votano in massa per la Lega.
«I veneti votano per l’autonomia. Il Veneto si sente diverso, sa che il suo è un mondo a sé. L’imprenditore veneto si suicida per responsabilità verso i dipendenti, perché non riesce a pagargli lo stipendio. Le risulta che succeda qualcosa di simile in altre parti d’Italia? Mi spiace dirlo, ma quel Francesco de Vito Piscicelli, il costruttore napoletano che voleva fare affari dopo il terremoto dell’Aquila, arrestato in seguito all’agghiacciante conversazione telefonica col cognato - “io ridevo stamattina alle 3 e mezzo dentro al letto” - è un mio lontano cugino. La differenza fra il Veneto e il Sud è tutta qui. Loro sono abituati al pasticcio. “T’ho fatto fesso”: questa è la gioia del meridionale».
La Lega è la nuova Democrazia cristiana?
«Con la Dc la nostra autonomia era garantita dai Bisaglia, dai Rumor, dai Ferrari Aggradi, dai Gui. Per questo Antonio Bisaglia, una creatura delle Assicurazioni Generali, venne fatto fuori. O non crederà che sia caduto in mare per un malore e che suo fratello don Mario sia annegato per sbaglio in un lago del Cadore mentre indagava sull’oscuro incidente che costò la vita a Toni?».
Qual è la miglior dote dei veneti?
«La tenacia. Ci aggiunga la tranquillità: si sentono a posto con la loro coscienza».
E il peggior difetto?
«Non riescono a battere i pugni sul tavolo per ottenere ciò che gli spetta».
Un giorno Venezia s’inabisserà oppure vivrà in eterno?
«Venezia seppellirà i suoi detrattori, questo è sicuro».
Stefano Lorenzetto stefano.

lorenzetto@ilgiornale.it

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