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Il paese svizzero dove i frontalieri (italiani) sono più degli abitanti

Il paese svizzero dove i frontalieri (italiani) sono più degli abitanti

dal nostro inviato a Lugano (Svizzera)

Alle sei del mattino l'invasione degli italiani è già iniziata: dal valico di Ponte Tresa una colonna ininterrotta di auto muove verso la Svizzera. Si procede lentamente, per lunghi tratti a passo d'uomo. Per raggiungere Lugano sono una decina di chilometri, un quarto d'ora di strada in condizioni normali. «Di solito ad arrivare ci metto un'ora», spiega il barista varesino di una tavola calda di Manno, paese della cintura nord di Lugano. «Poi dalle tre del pomeriggio, si ricomincia in senso inverso. E fino alle otto di nuovo tutti in colonna». Manno è la capitale dei frontalieri italiani in Ticino: nel paese, aggrappato alla collina, i residenti sono 1.200. Più in basso, lungo la via cantonale, in un dedalo di capannoni e palazzine per uffici, lavorano oltre 1.800 cittadini italiani, ben più degli abitanti rossocrociati.

Un caso estremo ma nemmeno troppo. Perché sul confine tra Ticino, Lombardia e Piemonte va in onda una sorta di quotidiana migrazione di massa. Secondo gli ultimi dati dell'ufficio svizzero di statistica, riferiti al giugno di quest'anno, gli italiani che ogni giorno fanno i pendolari tra le loro case al di qua della frontiera e il posto di lavoro svizzero sono più di 65mila. La crescita è stata del 5,3% negli ultimi 12 mesi, ma a fare impressione è il confronto con 10 anni fa: allora i frontalieri erano la metà di adesso. Nel frattempo è arrivata la crisi, che ha riportato l'economia italiana al livello del 2000, mentre il Ticino ha fatto boom: dall'inizio del millennio la ricchezza prodotta è cresciuta di oltre il 30%. A pesare è stata anche la rivalutazione del franco nei confronti dell'euro, che ha reso sempre più conveniente guadagnare in Svizzera e spendere in Italia. Il risultato è che oggi in Ticino il 27,1% dei lavoratori, poco meno di un terzo, è frontaliero. Se per qualche motivo si decidesse di chiudere il confine, l'intero Cantone sarebbe alla paralisi.

La conseguenza più evidente della moltiplicazione dei frontalieri è quella già accennata: il traffico. Ogni giorno le vetture che nelle ore di punta entrano in Ticino dai valichi italiani (soprattutto Chiasso, Gaggiolo, Gandria e Ponte Tresa) sono circa 40mila. Una quantità tale da portare regolarmente al limite dell'infarto tutto il sistema viario. Giorgio Rossi, sindaco di Manno, la prende con filosofia: «Abbiamo dovuto adattarci, cerchiamo di spostarci tenendo conto del flusso dei pendolari di confine. Mio figlio abita a Chiasso e lavora a Lugano. Va in treno anche se gli piacerebbe usare la macchina. Non lo fa perché rimarrebbe imbottigliato». Rossi, che è un ex dirigente di banca in pensione, non nasconde il beneficio economico portato dagli «italiani»: «Qui sono indispensabili. Per certi posti trovare un ticinese è impossibile. E poi pagano tasse che in parte vengono girate ai comuni, per noi sono una ricchezza».

IL GRANDE NEMICO

Non tutti, però, sono disposti a vederla in questo modo. E il grande nemico dei frontalieri si chiama Lorenzo Quadri, uno dei due esponenti della Lega dei Ticinesi che siedono in Consiglio Nazionale (la Camera bassa della Confederazione). Pochi mesi fa Quadri ha proposto una tassa di 500 euro per tutti gli italiani che ogni giorno fanno la spola con la Svizzera. Il provvedimento è stato bocciato dal Parlamento di Berna perché considerato discriminatorio. Lui, però, non demorde: «Entro fine anno, insieme all'Udc, il partito guidato da Christoph Blocher, presenteremo una proposta di iniziativa popolare per la fine della libera circolazione delle persone frutto degli accordi con la Ue». Proprio da lì, dai trattati siglati con Bruxelles, secondo Quadri, sono iniziati i problemi. «Fino al 2004 qui valeva il principio della preferenza indigena. Chi voleva assumere uno straniero doveva dimostrare di non aver trovato la stessa professionalità in Svizzera. Per adeguarci ai principi europei abbiamo dovuto abolirlo. E da lì si è aperta la porta ad ogni abuso».

In Ticino da sempre alcuni settori sono un serbatoio per la manodopera d'oltre frontiera: industria, ospedali, edilizia. Le nuove norme post 2004 hanno però liberato le mani ai datori di lavoro. Così, anche in aree un tempo tabù come banche, finanza e assicurazioni si è iniziato ad assumere giovani italiani, spesso laureati. «Si è messo in moto un meccanismo di sostituzione», continua Quadri. «Si manda via un dipendente svizzero che guadagna 3.600 franchi. E se ne assumono due, italiani, che ne guadagnano 1.800 ognuno. Il problema è che chi vive in Italia con 1.800 franchi campa. Qui in Svizzera, visto il costo della vita, con la stessa cifra bisogna ricorrere agli aiuti sociali».

Il cosiddetto «dumping salariale», ha allargato la fascia dei nuovi poveri anche sotto il Gottardo. «A essere messo in discussione è stato il tradizionale modello ticinese», spiega Andrea Puglia, responsabile per i frontalieri del sindacato svizzero Ocst. «Nei settori in cui c'è un contratto collettivo, come la sanità, le pressioni alla riduzione degli stipendi sono state limitate. Ma in molti altri non c'è alcun tipo di vincolo e i problemi sono stati maggiori. Parlo di banche, assicurazioni, studi professionali, call center».

LE TASSE

Per molte di queste categorie il governo cantonale ha introdotto una sorta di salario minimo, il cosiddetto Contratto normale di lavoro, fissato intorno ai 3.500 franchi mensili (poco più di 3.700 euro). Visti da una prospettiva italiana è una somma di tutto rispetto. Tanto più se si considerano i frontalieri che vivono a ridosso del confine. In base agli accordi Italia-Svizzera firmati negli Anni Settanta chi risiede in un elenco di comuni a meno di 20 chilometri dalla frontiera viene tassato solo in base alle aliquote elvetiche con un'imposta trattenuta direttamente dal datore di lavoro.

«Tasse, contributi pensionistici e altre assicurazioni pesano sul lordo per circa il 20%, molto meno di quanto accade in Italia», spiega Puglia. Al vantaggio fiscale dei lavoratori corrisponde quello dei comuni di provenienza. In base al meccanismo dei cosiddetti «ristorni» la Svizzera gira all'Italia il 38% delle tasse pagate dai frontalieri. Le somme, oggi circa 60 milioni di franchi l'anno, vengono trasferite ai comuni di confine, che godono dunque di preziose entrate supplementari.

Il sistema sembra fatto apposta per aumentare il numero dei frontalieri, ma gli ultimi accordi fiscali tra Roma e Berna prevedono che nell'arco di 10 anni venga abolito: i frontalieri pagheranno le attuali aliquote in Svizzera, ma poi dovranno versare al Fisco italiano la differenza rispetto alle normali aliquote. Gli svizzeri smetterebbero così di pagare i cosiddetti «ristorni» e ridurrebbero la convenienza fiscale del lavoro italiano, diminuendo la pressione sul loro mercato del lavoro.

Proprio per queste ragioni, però l'Italia adesso nicchia. Gli accordi sono stati firmati ma non ancora ratificati dal governo di Roma. «I frontalieri accettano di lavorare in condizioni peggiori e senza garanzie di nessun tipo per un vantaggio che domani potrebbe non esserci più», si lamenta Eros Sebastiani, presidente dell'Associazione frontalieri Ticino. «Ma anche per il territorio la novità sarebbe un colpo durissimo. Calcolando una media prudenziale di 3mila euro al mese per persona portiamo in Italia 2 miliardi l'anno, che entrano nel circuito economico delle zone di confine.

Domani non sarà più così».

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