Cultura e Spettacoli

Il Pci, Stalin e l’inganno della doppia verità

Nelle cronache di un dirigente, le contraddizioni del Partito dopo il discorso segreto al XX Congresso

Torino, in quel fine inverno del 1956, non sembra tanto lontana da Mosca. La città operaia guarda oltrecortina. Si sentono strane voci, senza conferme, senza smentite. Il New York Times, racconta che al XX Congresso del Pcus Nikita Krusciov ha buttato giù dal piedistallo Stalin. Il direttore dell’Unità a Torino è Luciano Barca. Quando, cinquant’anni dopo, si ritrova a sfogliare il suo diario sembra quasi sorpreso delle poche note che ha dedicato a quei giorni: «Non c’è un resoconto particolareggiato. Eppure fu un periodo incredibile. Ci siamo entusiasmati, poi interrogati, divisi. Siamo passati dalla gioia per nuove conquiste di libertà all’amarezza». La Russia allora era ancora la terra promessa. Il 1956 segna una verità, scomoda, che si fa fatica ad ignorare. Il paradiso di Stalin nascondeva un piccolo inferno. Il 1956 è anche l’inizio di un lento cammino e di un’altra bugia. Se la Russia non può più essere la terra promessa, carnale e concreta, i comunisti italiani hanno bisogno di un luogo dello spirito dove illudersi e rifugiarsi. Lo troveranno vent’anni dopo nella «questione morale» di Berlinguer. Il Pci diventa così il «partito diverso». Se la Russia era l’illusione della libertà, la questione morale diventa l’illusione dell’onestà. Tutti e due i «paradisi» servono a sottolineare la differenza antropologica dei comunisti dagli altri. Il paradiso divide gli eletti dai dannati, i santi dai malfattori. Il rapporto Krusciov sotterra il mito sovietico, ma lascia intatto tutto il resto. E il Pci sopravvive alla caduta di Stalin.
Barca è un comunista atipico. Ha combattuto la guerra a bordo del sommergibile Ambra. Era nella Decima Mas. Diventa giornalista un po’ per caso. Racconta: «Un giovane smagrito con un maglioncello scuro mi cerca alla porta di via Lariana: dice d’essere Pietro Ingrao, dell’Unità, e vuole parlarmi. La proposta di cui è impacciato ambasciatore è che io vada a lavorare al quotidiano, dove c’è bisogno urgente di sostituire un redattore rimasto ferito la notte dell’ultimo dell’anno da una bomba carta o un petardo lanciato dalla finestra». Era il 1946. Comincia così il suo matrimonio con il Pci. È l’anima economica «eretica» di Botteghe Oscure. È l’ambasciatore del partito all’estero. Ma un ambasciatore segreto, con missioni riservate nel mondo comunista. Incontra Mao Zedong, Thorez, Kruscev, Gorbaciov, i dirigenti vietnamiti, Arafat, Menghistu. È il primo dirigente del Pci invitato per l’Independence Day all’ambasciata americana a Roma. È il testimone del rapporto tra Aldo Moro ed Enrico Berlinguer: il compromesso storico.
Barca scrive, alla fine della giornata, i suoi ricordi in un diario, appunti buttati giù la sera, su fogli volanti, agende o schede che scandiscono il passare del tempo. C’è la storia del partito, ci sono i suoi uomini, dal 1945 fino al 1996, quando riconsegna a un D’Alema distratto la tessera del Pds. Tutto questo è stato ora raccolto in tre volumi pubblicati da Rubettino con il titolo Cronache dall’interno del vertice del Pci (e di cui presentiamo in questa pagina alcuni stralci relativi al 1956).
Togliatti arriva a Botteghe Oscure e parla al comitato centrale. È il 13 marzo del 1956. È la prima volta che esprime critiche, non letali, a Stalin: «È stato un grande pensatore marxista. Questo non vuol dire però che tutto ciò che da Stalin è stato scritto o formulato sia da accogliere come cosa vera e definitiva, come cosa giusta sotto tutti gli aspetti». È un po’ poco. «La sua relazione - scrive Barca - lascia in tutti noi un senso di disagio, di profonda delusione, quasi di rabbia. È Pajetta il primo a farsi interprete di ciò, a porre per primo la questione del rapporto segreto, senza tuttavia creare una contrapposizione a Togliatti». Chi la crea è Amendola che fa suo fino in fondo l’atto liberatorio di Kruscev. «Ma finisce in questo modo per segnare per la prima volta una spaccatura, in modo palese, nel gruppo dirigente». Ma il partito non affronterà mai fino in fondo lo strappo di Krusciov. Il Pci non rinnega la terra promessa. Tenta solo una fuga, lenta, carica di sofismi. Si sente l’odore dell’orrore dei gulag e della Siberia, ma nessuno chiama queste cose con il proprio nome. Barca fa un viaggio a Mosca nel ’56 e scopre che nelle riunioni il nome di Stalin non è mai fatto. «Si parla - racconta - di un misterioso culto della personalità che ognuno traduce sul piano sindacale in critiche aspre al proprio capo». Quando in Polonia insorgono gli operai di Poznan, solo Peppino Di Vittorio, con un editoriale coraggioso, parla di lavoratori sfruttati e senza tutela sindacale. Togliatti lo sconfessa. Italo Calvino durante una cena ascolta le critiche di Amendola ai carriarmati sovietici a Budapest. Lo ascolta e poi sbotta. «Perché queste cose non le hai dette al comizio e hai sostenuto il contrario?». È il gioco delle due verità, quella per le masse (Mosca è buona) e quella per gli intellettuali (Mosca è cattiva). È l’inganno della doppia morale che porta il popolo comunista a sognare un’inafferrabile paradiso perduto.

L’utopia di un partito senza peccato.

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