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Pensione a 50 anni, "scalone d’oro" per i dipendenti del Parlamento

Ecco le strane regole che garantiscono vitalizi privilegiati a chi lavora alla Camera e al Senato, a spese dei cittadini

Pensione a 50 anni, "scalone d’oro" per i dipendenti del Parlamento

da Roma
In Parlamento non esistono scaloni e tantomeno scalini. Anzi, quella dei dipendenti di Camera e Senato sembra essere invece una discesa piuttosto agevole verso una pensione ricca e serena. Un «paradiso» che non può non sorprendere, specie se parametrato al trattamento pensionistico del lavoratore italiano medio. Un paradosso che evidenzia le contraddizioni di un sistema che, pur in emergenza, mantiene sacche di privilegio con costi altissimi per la collettività. A sollevare il coperchio è stata l’inchiesta pubblicata dall’Espresso (da ieri in edicola) che svela i «pubblici segreti» dei due palazzi. Cogliendo nel segno, a giudicare dalla rapida (e opinabile) replica che i due presidenti di Camera e Senato, Fausto Bertinotti e Franco Marini, hanno affidato alle agenzie e sintetizzabile nel motto «la qualità si paga». Ma veniamo alla questione. Conosciute le retribuzioni iperboliche di barbieri, operai, stenografi e che costano allo Stato circa 600 milioni di euro l’anno, sorte diversa non poteva spettare alle pensioni, raggiungibili in alcuni casi a poco più di 50 anni. Partiamo da Montecitorio, dove relativamente alla pensione di vecchiaia, dal 2000 c’è stato un allineamento ai 65 anni di tutti i lavoratori. Diverso però il trattamento per le pensioni di anzianità di coloro in servizio fino al 2001. Per questi infatti, sono richiesti 35 anni di contributi e 57 anni di età come per tutti. Ma attraverso una «giusta» interpretazione del regolamento, si riesce ad andare a casa molto prima pagando, dopo 20 anni di servizio, il 2 per cento di penale (il décalage) per ogni anno mancante ai 57. Se a questo uniamo il riscatto degli anni di università, del militare e i due bienni di contribuzione concessi in passato ai dipendenti, la pensione può arrivare a 50 anni. Non solo. Se infatti dal 1995 con la riforma Dini il sistema di computo è di tipo «contributivo», cioè prendendo come riferimento la quantità di contributi effettivamente versati, a Montecitorio il calcolo del «vitalizio» avviene su una base «retributiva», ossia in proporzione all’ultimo stipendio percepito. Il quale confluirà nella pensione per circa il 90 per cento dell’importo. Mentre, per problemi di bilancio, non sembra più vivere la cosiddetta «clausola d’oro»,(parzialmente abrogata e per il resto non applicata fanno sapere fonti interne alla Camera), che prevedeva anche per chi non è più in servizio gli adeguamenti spettanti ai dipendenti attivi. Non va peggio, anzi va meglio ai dipendenti del Senato che in pensione ci vanno in media a poco più di 54 anni. Per loro esiste quota 109 che nulla ha in comune con quelle previste nelle recenti leggi in materia. Il numero è la sommatoria delle «due età» quella anagrafica e quella contributiva comprendente più o meno le stesse voci della Camera (università, militare, bienni figurativi concessi etc.). In questo modo il personale di Palazzo Madama che sia in servizio da 25 anni e con 31 di contributi (raggiungibili in maniera piuttosto agevole) può andarsi a godere il meritato riposo al compimento dei 53. Ma se risulta intollerabile aspettare la naturale maturazione del diritto alla pensione, anche qui è prevista la «valvola» di una blanda penalizzazione (più bassa della Camera) dell’1.5 per cento.
Così, grazie alla contribuzione figurativa (riscatti e bienni) a casa si potrà andare anche a 50 anni vedendosi decurtato il trattamento complessivo fino al raggiungimento dei 53 (salvo che che non se ne abbiano 35 di anzianità, nel qual caso niente «sanzione»). Intanto arrivano piccoli segnali di cambiamento. A Montecitorio agli assunti dopo il 2001 non sono più applicabili queste norme.

Una situazione kafkiana però, visto che la riforma sul loro trattamento pensionistico non è ancora stata fatta.

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