Politica

Perché astenersi è un errore

La Compagnia delle Opere, per il referendum del 25 e 26 giugno, ha consigliato l'astensione. Con un documento, si proietta oltre la scadenza referendaria. Verso una nuova fase costituente in grado di ridisegnare un assetto di regole condivise che sostengano il rinnovamento dell'Italia. La scelta è, ovviamente, legittima. Temo però che le conseguenze non saranno quelle che gli amici della Compagnia delle Opere auspicano. Essi dovrebbero sapere meglio di altri che la politica - come la vita del resto - è regolata da conseguenze inattese e non volute. Nel caso in questione, non è difficile pronosticare che una secca sconfitta del sì, anziché aprire una fase costituente, finirà per favorire una concezione delle regole politiche che il pensiero cattolico del quale sono una delle principali espressioni ha fin qui osteggiato.
Cercherò di dimostrare questo assunto partendo da due premesse. La prima è che anch'io ritengo - esattamente come gli amici della Compagnia delle Opere - che nella revisione costituzionale approvata la scorsa legislatura dal centrodestra vi siano «dei contenuti interessanti ed altri discutibili». Con più precisione, penso che i tre indirizzi di fondo della riforma - rivisitazione del titolo V, forma di governo del premier, superamento del bicameralismo perfetto - siano stati ben individuati. Mentre meno convincenti appaiono, a volte, i meccanismi tecnici con i quali si è ritenuto di metterli in atto. La seconda premessa è che quando vi sono due opzioni, come nel caso del referendum, ogni scelta è obbligatoriamente empirica e approssimativa. Se non si adotta questo criterio metodologico, si nega la possibilità stessa del referendum in quasi tutte le materie, e certamente in quelle costituzionali. Si finisce in tal modo per rifugiarsi sempre nell'astensione delegando ad altri, con meno scrupoli, scelte fondamentali. Perché, è bene ricordarlo, nei referendum confermativi in materia costituzionale non c'è quorum: la consultazione è valida anche se si reca alle urne solo il 10% degli elettori. Per questo, al fine di assumere una decisione, è bene considerare sia i testi sia le più complessive implicazioni politiche del risultato referendario.
Sono queste ultime quelle che più mi preoccupano, e dovrebbero vieppiù preoccupare la Compagnia delle Opere. Perché ogni giorno giungono conferme che larga parte del fronte del no (pressoché tutto, tranne la piccola dissidenza di Barbera e Ceccanti) sta producendosi in una difesa aprioristica della Costituzione del 1948: del suo valore simbolico ancor più che del suo contenuto. Quel documento non è solo considerato un successo storicamente circoscritto, viste le particolari condizioni dalle quali scaturì. Si trasforma nel mitico luogo d'incontro tra le grandi culture politiche che avrebbero fatto la storia di questo Paese: quella cattolico-sociale e quella comunista, allora inopinatamente divise dalla Guerra Fredda e oggi finalmente riunificate. E da questa visione si fanno discendere due conseguenze principali. La prima è che la Costituzione - nella parte dei principi ancor più che in quella dei poteri - deve considerarsi ancor oggi intrinsecamente valida. Per questo, ad esempio, non è consentito contestarne gli eccessi di statalismo né di richiedere l'esplicito riconoscimento del principio di sussidiarietà. La seconda è che non tutte le forze politiche sono legittimate a proporre correzioni e modifiche della Carta o, quanto meno, alcune sono più legittimate di altre. La Costituzione, insomma, è considerata uno strumento programmatico a forte tasso ideologico; non certo un documento che, sulla base di pochi principi previi, si aggiorna un po' ogni giorno, derivando la sua legittimità innanzitutto dalle opere degli uomini e dalla evoluzione della società. In altri termini: se i sostenitori del no dovessero scrivere la storia ideale del costituzionalismo italiano, indicherebbero come grandi tappe la Carte del 1948 e poi la riforma del titolo V del 2001. Nel mezzo non vi sarebbe spazio per null'altro. Né per il significato costituente del 1953 quando i partiti presero definitivamente il sopravvento, né per la delegittimazione della destra avvenuta nel 1960 e nemmeno per i referendum dei primi anni Novanta, che hanno introdotto il bipolarismo stravolgendo la forma di governo. Lor Signori non possono certo impedire alla Costituzione materiale d'avere il suo corso, ma cercano di nasconderlo sotto il manto mitico di quella formale. Da ciò deriva una concezione immobile del processo costituente, che nega spazio all'empiria e impedisce che la novità possa prodursi come effetto dell'evoluzione sociale.
Per la Compagnia delle Opere c'è di che interrogarsi. Perché quel che inquieta in tale impostazione non è solo l'implicito tentativo di limitare lo sforzo di rinnovamento del cattolicesimo italiano del quale essa, assieme ad altri soggetti, è stata protagonista. Ancor più, è la concezione ideologica e mitica dei processi costituenti contro la quale, in tutte le epoche, esponenti del cattolicesimo liberale hanno condotto battaglie imperiture. E questa concezione, intrinsecamente illiberale, si rafforzerà se il «no» dovesse stravincere. Altro che nuova stagione costituente! Si tornerebbe indietro, alla stagione di sessant'anni fa. E, per ciò che la Compagnia delle Opere dovrebbe più temere, la Carta del '48 nella sua prima parte guadagnerebbe l'immortalità e il cattolicesimo politico prevalente tornerebbe ad essere quello «sociale» in senso ideologico.
Certo, c'è il rovescio della medaglia. Nella riforma del centrodestra non tutto è perfetto. Alcune parti si presentano persino un po' sgangherate. Ma c'è un elemento che, comunque, spinge a preferire il sì: è la scelta che lascia aperto uno spiraglio di riforma. Afferma implicitamente che il cambiamento possa derivare persino da decisioni improvvide. Come fu quella della sinistra di approvare da sola nel 2001 la riforma del titolo V. Come è stata questa del centrodestra di giungere in questo modo al referendum, per di più in piena estate e dopo due turni elettorali. Ma il buono non si realizza contrapponendo la perfezione del cielo alle bassezze della terra.

A volte è necessario sporcarsi le mani per intuire le strade attraverso le quali un po' di bene può giungere dove regna l'imperfezione. È la più importante lezione di laicità che in questi anni ci avete dato: amici della Compagnia delle Opere, perché non ci ripensate?

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