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Perché a Milano i bus arrivano e a Roma no

Dipendenti, biglietti e costi: il confronto fra i numeri di Atm e Atac spiega le differenze

Perché a Milano i bus arrivano e a Roma no

Il referendum è andato, rimane l'Atac: interminabili attese alle fermate, metrò dove sono un pericolo anche le scale mobili, autobus che si guastano per strada o, peggio, vanno a fuoco. E vertenze sindacali che profumano di anni Settanta, come quella iniziata di recente da 130 dei 300 macchinisti del metrò romano: giù in galleria non ci vogliono più stare, troppo buio e polveri sottili; chiedono il trasferimento in superficie o minacciano lo sciopero.

In attesa che i treni della sotterranea si guidino da soli, l'azienda di trasporto pubblico della Capitale è più che mai un caso di scuola. In negativo, naturalmente. Per raccontarlo bastano pochi numeri e qualche confronto: il più immediato è con l'altro colosso italiano di autobus e filobus, l'Atm di Milano. Non che l'azienda milanese possa essere considerata un capolavoro gestionale: gli indicatori messi a punto dagli esperti dicono che i migliori esempi europei stanno di casa ben più a Nord. Ma l'Atm ha dimostrato di sapersela giocare anche a livello internazionale, conquistando per esempio la gestione di due linee del metrò di Copenaghen, da cui i milanesi ricavano utili (cinque milioni l'anno scorso) con un buon livello di soddisfazione, pare, tra gli esigenti passeggeri danesi.

A contare, e a giustificare il paragone giornalistico Atm-Atac, è il fatto che, pur scontando inefficienze e difetti, gli autobus di Milano arrivano; quelli di Roma, dove si parla la stessa lingua e valgono le stesse leggi, no. E forse c'è qualche cifra in grado di spiegare il mistero.

Un punto di partenza inevitabile è quello del numero di dipendenti. Secondo quanto risulta dai bilanci 2017, all'Atac sono 11.500, in Atm 9.798, circa 1.700 in meno. A fare la differenza a prima vista potrebbe essere la diversa dimensione dei due comuni, anche se ormai Atm opera in larghissima parte dell'area metropolitana. Ma per capire la situazione c'è un altro dato che va incrociato al precedente.

Se si somma tutta la strada percorsa dalle vetture dell'Atac e dell'Atm in un anno si ottengono due risultati ben diversi: 144 milioni di chilometri nel caso di Roma, 177,4 milioni a Milano. In pratica a Roma 1.700 lavoratori in più «producono» 33 milioni di chilometri di servizio di trasporto in meno. Per i tecnici del settore questo vuole dire che la produttività del personale dell'Atac (un indice che tiene conto dei chilometri percorsi divisi per il numero dei dipendenti) è di circa un terzo inferiore a quella dei dipendenti dell'Atm. Come mai?

Tutti i generali

Una prima risposta si può ottenere guardando in dettaglio chi sono i dipendenti delle due società. A Milano i grandi capi con contratto dirigenziale sono 26, a Roma 47 (nel corso degli ultimi mesi sono diminuiti di poche unità); i quadri 98 contro 181 (la metà); gli impiegati 960 contro 1.343. Come in certi eserciti sudamericani, nell'azienda romana abbondano ufficiali e colonnelli seduti dietro una scrivania, mentre è proporzionalmente più ridotto che a Milano il numero di chi è impegnato in prima linea. Non c'è solo questo, pesano anche inefficienza e «pesantezze» organizzative. Il tasso di assenteismo è per esempio del 12% (contro il 7% a Milano): ogni giorno quasi 1.500 persone non si presentano al lavoro. E secondo gli ultimi dati le assenze sono aumentate di un altro 15% durante l'estate scorsa.

Le cronache dei giornali si sono del resto alimentate per anni di notizie sul personale Atac. Il caso più noto è quello della cosiddetta «parentopoli», l'assunzione tra il 2008 e il 2010 di un paio di centinaia di dipendenti che non avevano i requisiti per lavorare in un'azienda di trasporti: un'ex cubista, un bagnino, parenti e amici di politici e dirigenti. Alcuni manager sono finiti sotto processo, molti degli assunti sono stati licenziati. Più di recente si è scoperto che almeno tra il 2013 e il 2016, un pugno di dirigenti garantiva permessi sindacali anche a chi non ne aveva diritto: in tutto più di 50mila ore regalate, con un danno di oltre 1,5 milioni. E si potrebbe continuare.

Spese in aumento

«Anche le assunzioni dimostrano che le scelte dell'Atac non obbediscono a criteri di efficienza ma ad altre dinamiche», spiega Andrea Giuricin, docente all'università di Milano Bicocca e autore di uno studio sugli ultimi bilanci della società di trasporti romana. «E il problema non è tanto l'evasione tariffaria, come hanno detto alcuni politici, quanto piuttosto il livello dei costi». Giuricin ha confrontato le spese sostenute dalle diverse aziende per veicolo al chilometro: Atac spende 7,4 euro, Atm 5, le migliori società di trasporto europee poco meno di 3. «Il bello è che tra il 2013 e il 2015 c'era stata una lieve diminuzione; sotto il sindaco Raggi, tra il 2016 e il 2017, le spese per vettura chilometro sono tornate ad aumentare in modo netto».

Quanto alle entrate, anche qui la sproporzione è evidente: la società romana ha incassato nel 2017 circa 265 milioni di euro per la vendita di biglietti e abbonamenti. La cifra corrispondente di Atm nel 2016 (è l'ultimo anno per cui si hanno i dati, visto che la società milanese ha deciso di non dare il dettaglio per il 2017) era di 412 milioni.

Per questa serie di ragioni non sorprende che negli ultimi nove anni al contribuente italiano Atac sia costata la bellezza di 7 miliardi: 5,6 corrispondono ai contributi pubblici ricevuti (soprattutto sotto forma di contratto di servizio con Comune e Regione), 1,28 miliardi sono invece le perdite accumulate nei bilanci del periodo preso in esame. E anche in questo caso un confronto con Atm è interessante visto che dal 2009 la società milanese ha complessivamente ricavato utili netti complessivi per 135 milioni.

Dopo anni di rosso «monstre» (212 milioni nel 2016 e 120 nel 2017) l'azienda romana ha chiesto l'ammissione al concordato preventivo di fronte a un debito complessivo di quasi 1,5 miliardi. A metà dicembre i creditori dovranno votare e la scelta è se pronunciarsi per un fallimento o accontentarsi del 30% del credito rivendicato e sperare di rivedere il resto in 15 anni. Nel frattempo i commissari hanno mandato un po' di carte in Procura. Con una conseguenza: praticamente ovunque hanno guardato i magistrati hanno trovato sospetti di irregolarità. Nel mirino è finito di tutto: dall'affidamento della mensa del dopolavoro, agli appalti per le pulizie; da una complessa operazione di leasing internazionale che ha causato un danno di 51 milioni, al contratto per la nuova sede (mai realizzata), anche in questo caso con perdite per decine di milioni.

Cordate e clientele

Sul registro degli indagati sono finite 37 persone, praticamente tutti gli amministratori degli ultimi 15 anni, con due eccezioni che vanno citate: Marco Rettighieri, capo azienda fino all'autunno 2016, e Bruno Rota, ex Atm, numero uno per pochi mesi tra aprile e luglio del 2017. Entrambi furono silurati da Virginia Raggi. Il primo se ne andò accusando: «La giunta si è trasformata in una sponda di cordate e clientele interne all'azienda». Polemica anche l'uscita di scena del secondo: «Se non si riconoscono pienamente le difficoltà di Atac si inganna la gente». Quanto alla sindaca ha prolungato dal 2019 al 2021 il contratto di servizio del Comune con la fallimentare azienda di trasporti e fatto di tutto, rinnegando anni di propaganda Cinquestelle sui pregi della democrazia diretta, per fare fallire il referendum consultivo che avrebbe aperto alle gare per l'assegnazione del servizio. In settembre ha anche annunciato che il primo semestre 2018 dell'Atac si è concluso per la prima volta con un piccolo utile.

Secondo fonti interne all'azienda, però, i risparmi sono stati ottenuti riducendo ancora una volta il numero di autobus che circolano per strada.

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