Politica estera

Il piano del Qatar per comprarsi l'America

Università, lobby, tecnologie e asset strategici: come il piccolo emirato controlla i centri di potere Usa per influenzare la politica mondiale

 Il piano del Qatar per comprarsi l'America

Tanto piccolo quanto potente. Il Qatar si sta ritagliando un ruolo di peso sulla scena internazionale come mediatore dei negoziati tra Israele e Hamas. Non solo per la sua posizione geografica strategica e il cospicuo finanziamento dei miliziani di Gaza da usare come leva. Il minuscolo emirato del Golfo, forte delle disponibilità economiche da terzo produttore al mondo di gas naturale, si è costruito nel tempo un percorso sotto traccia per manovrare i fili del potere globale. Un percorso spianato da un flusso incessante di denaro. Che parte da Doha e arriva dritto a Washington.

Il volume a nove zeri (oltre 45 miliardi di dollari) degli investimenti stanziati servirebbe - ricostruisce un report di The Institute for the study of global antisemitism and policy (Isgap) - ad attuare un vero e proprio piano di conquista: infiltrarsi nel cuore dell’Occidente, assicurandosi il controllo delle risorse strategiche della più grande potenza mondiale. E per farlo Doha si servirebbe di due “cavalli di Troia”. La Qatar Investment Authority (QIA), il fondo sovrano di Doha che ha un capitale stimato tra i 500 e i 1000 miliardi di dollari, e la Qatar Foundation (QF), un’organizzazione non profit fondata dall'emiro Hamad bin Khalifa Al Thani nel 1995 per lo sviluppo dell’istruzione, della scienza e della società.

Le sovvenzioni qatariote negli Stati Uniti, spaziano dall’immobiliare (possiede il 10% della società proprietaria dell’Empire State Building) all’energia fossile (in partnership con ExxonMobile e Chevron Phillips Chemical, i due colossi usa del comparto petrolchimico), all’informazione (nel 2013 ha acquisito il news network CurrentTv sostituito da Al Jazeera America), all’hôtellerie di lusso (Plaza hotel e St. Regis New York) fino al food & beverage a base vegetale (puntando su EatJust, start up californiana specializzata in cibo vegano).

Ma è nel campo dell’università e della ricerca scientifica che il minuscolo emirato, poco più grande dell’Umbria, si ritaglia il primato, superando i 3,2 miliardi di dollari (più del doppio della Cina). Le donazioni avvengono tramite la Qatar Foundation che ha corretto il proprio statuto in ente privato per il bene pubblico, bypassando così le restrizioni nei finanziamenti imposte alle entità governative. Questo, nonostante, di fatto, la royal family degli Al Thani ne mantenga ancora la proprietà.

Per “massimizzare la propria influenza” la fondazione incanala gli investimenti verso una ristretta e prestigiosa élite di istituti universitari - Texas A&M University, Carnegie Mellon University, Northwestern University, Yale University, Georgetown University - di cui ha costruito sedi distaccate a Doha. Una mossa di soft power che, insieme alla sproporzione dei fondi allocati - e non dichiarati - per spingere gli studi sul Medio Oriente nei piani accademici, tradisce l’intento di promuovere l’immagine e gli interessi nazionali, “manipolando” pro Qatar (in generale, pro paesi arabo-musulmani e contro Israele) la formazione e l’azione politica delle classi dirigenti del futuro.

Lo scopo non proprio “filantropico” spiegherebbe la reticenza della Qatar Foundation a pubblicare i contratti stipulati con le università, a suo dire per proteggere “informazioni commerciali riservate”. Se obbligata, al massimo diffonde dati generici senza alcun dettaglio sui termini di ingaggio, né sul proprio ruolo nell’”orientamento” dei piani di studio e di ricerca. Che emerge nel contratto - di cui l’Isgap è riuscito ad avere una copia integrale - siglato tra Qatar foundation e Texas A&M, un’università pubblica, basata a College Station vicino a Houston, tra le migliori degli Stati Uniti, oltre a essere la più grande con più di 70.000 studenti.

Un miliardo di dollari spalmato in 507 progetti di ricerca: la partnership si sviluppa in molti campi altamente sensibili come il nucleare, l’intelligenza artificiale, la sicurezza informatica, la robotica, la biotecnologia e lo sviluppo di armi avanzate. A saltare all’occhio sono una serie di “clausole problematiche” che lederebbero l’indipendenza richiesta a un’istituzione educativa sottoponendola ai diktat di un’ente straniero.

I finanziamenti - si legge nel contratto - sono vincolanti al mantenimento di standard decisi da Qatar Foundation, che interviene su nomine e scelte dei programmi, impedisce altre cooperazioni estere non approvate, acquisisce i diritti di proprietà intellettuale di tutte le scoperte (molte nel campo scientifico e nucleare) e pretende pieno rispetto delle leggi di Doha.

Non solo. Per applicare il suo piano di dominio, Doha non disdegnerebbe l’uso di scappatoie legali e canali opachi. Formalmente, la legge americana (sezione 117 dell’Higher Education Act) prevede per le università di dichiarare tutti i finanziamenti esteri superiori ai 250.000 dollari. Obbligo di trasparenza bypassato dalla Qatar Foundation servendosi - per trasferire i fondi - di compagnie straniere (che controlla) o di canali sicuri garantiti da banche compiacenti di cui è azionista (Santander Bank, nel caso della Yale University).

Ad allarmare - delle partnership con gli istituti di ricerca - è il travaso dagli Usa al Qatar di tecnologie strategiche di cui il piccolo emirato del Golfo ha acquisito la proprietà intellettuale. Energia, intelligenza artificiale, cybersecurity, IT, nucleare: il numero e il campo dei brevetti detenuti garantiscono a Doha il diritto di commercializzare e riprodurre le scoperte accademiche frutto di decenni di ricerche sostenute da Washington, assestando un duro colpo alla competitività americana in settori cruciali. Con il rischio che progetti sensibili per la sicurezza nazionale finiscano nelle mani di gruppi terroristici o islamisti paramilitari foraggiati dal Qatar, come Hamas e Hezbollah, o di Stati ostili con cui il Qatar mantiene il filo diretto, come l’Iran.

Ma è proprio in virtù di quei legami che il Qatar è diventato per Washington una risorsa diplomatica indispensabile per tutelare i propri interessi in Medio Oriente. Come mediatore con Hamas nel conflitto in corso a Gaza, come intermediario con i talebani quando ha aiutato gli Usa a ritirarsi dall'Afghanistan, o con l'Iran per contenerne le ambizioni nucleari. E non agisce solo nel quadrante mediorientale. Doha tratta per gli americani con i regimi ostili anche in America Latina (Venezuela) e in Africa (Repubblica Democratica del Congo, Sudan). In più, oltre ad essere il terzo maggiore acquirente di armi americane, ospita la più grande base militare degli Stati Uniti all’estero (Al Udeid), di cui ha finanziato la costruzione sborsando un miliardo di dollari.

Un intreccio di necessità e interessi culminato con l’istituzione nel 2018 del dialogo strategico Usa-Qatar, nato per rafforzare la cooperazione bilaterale nei settori della sanità, degli aiuti umanitari, dello sviluppo internazionale, dei diritti umani, del cambiamento climatico e del commercio. A cui si è aggiunta, su iniziativa dell’amministrazione Biden, la nomina nel 2022 del Qatar a “importante alleato non Nato”, un riconoscimento concesso a soli altri 17 stati. Tutto, mentre il piccolo emirato dal Pil pro capite più alto al mondo continua indisturbato a svuotare il gigante americano di risorse e tecnologie strategiche.

Con l’obiettivo di sottrargli, pezzo per pezzo, l’egemonia globale.

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