Politica internazionale

La globalizzazione sta finendo. E saremo più poveri

La globalizzazione è stata la grande opportunità seguita alla caduta del Muro e alla fine del Mondo diviso in blocchi

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La globalizzazione è stata la grande opportunità seguita alla caduta del Muro e alla fine del Mondo diviso in blocchi. Ha generato una crescita costante della ricchezza mondiale ma soprattutto una sua distribuzione a favore dei poveri del pianeta, diminuiti di circa un miliardo nonostante la popolazione sia passata da 5,3 a 8 miliardi.

È logico che il governatore di Bankitalia Panetta metta in guardia sul ripensamento che è in atto da alcuni anni, etichettato de-globalizzazione. La pandemia ha fermato i motori e quando s'è trattato di riavviarli ci siamo accorti che non si ripartiva col sincrono di prima. La crisi dei microchip, poi quella dell'alluminio e ancora quella dei porti cinesi, per finire al grano russo e ucraino furono tutte inizialmente considerate congiunturali, ascrivibili a questa o quella criticità, ma le risposte sono state strutturali che più non si poteva. Le ha ricordate Panetta, segnalando che il processo era iniziato prima del Covid: «Abbiamo assistito a un forte aumento delle restrizioni commerciali, determinato soprattutto dal serrato confronto tra Usa e Cina, oltre che dalla riemersione di tendenze protezionistiche»;

e che la matrice era politica, non economica: «Le imprese europee stanno riorganizzando la propria attività produttiva e le strategie di localizzazione al fine di limitare l'esposizione verso paesi ad alto rischio geopolitico». Segue l'equazione: se la globalizzazione ha portato benessere, la sua contrazione lo toglierà. Forse però ragionare in termini di pro e contro, bene e male, non aiuta. Intanto, i ripensamenti sono figli della stessa globalizzazione e l'esercizio non è giudicare gli uni e l'altra, ma capire entrambi per fare meglio, per governare ciò che deve restare e ciò che va cambiato del villaggio globale.

L'idea iniziale era ottima ma la sua esecuzione fu lasciata troppo all'economia, al cui interno l'impresa ha abdicato alla finanza, e troppo poco alla politica, che dopo il Muro riteneva di aver esaurito la sua funzione: la «fine della storia» di Fukuyama.

Mentre la ricchezza globale cresceva non notavamo che ce n'era pure una porzione che semplicemente si trasferiva dal Nord-Ovest al Sud-Est del mondo, soprattutto nell'industria manifatturiera. A tanti sfuggì, ma non alla working class che perdeva il lavoro e iniziava a covare pensieri brutti sulla globalizzazione e su chi li sostituiva. È l'economia, bellezza! Non solo. Imprese e finanza

non si accontentavano di industrie delocalizzate e traffici liberi, ma immaginarono pure un consumatore medio globalizzato. Sarebbe stato compito della politica unire le popolazioni attorno a ideali comuni, ma senza pretendere di appiattire diversità sedimentate nei secoli. Questo ha fatto infuriare le nazioni emergenti, che si sentivano minacciate dall'occidente nei loro costumi, non potendo certo intuire quanto noi decadenti «woke» fossimo ben pronti a prostraci alle loro culture.

I nodi sono venuti al pettine. Da un lato noi stiamo provvedendo a proteggere le nostre economie e dall'altro c'è chi scatena conflitti per affermare se stesso. Da qui le varie crisi che stanno configurando la de-globalizzazione. Speriamo che stavolta la politica raccolga l'esortazione di Panetta e batta un colpo, anche due. A Washington è probabile, a Londra è possibile. A Bruxelles? Difficile.

E forse è addirittura meglio che non lo faccia.

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