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L'Italia del lusso ha la sindrome cinese

Chi paga il conto della sindrome cinese in Italia? Sono spiccati i segni negativi di molti titoli del lusso

L'Italia del lusso ha la sindrome cinese

La bolla del Dragone è scoppiata e le Borse di Shangai, Shenzhen e Hong Kong sono crollate con una raffica di sospensioni. Ma chi paga il conto della sindrome cinese in Italia? Una prima risposta è arrivata ieri da Piazza Affari dove, in un listino che ha chiuso in netto rialzo schivando il tonfo asiatico e riprendendo fiato dallo tsunami greco, sono spiccati i segni negativi di molti titoli del lusso. Ovvero di quelle società come Ferragamo (-1,97 per cento), Geox (-2,02), Brunello Cucinelli (-2,62) e Tod's (-3,7) che realizzano buon parte dei ricavi proprio in Cina o in generale in Asia: per la casa fiorentina, ad esempio, l'area Asia Pacifico pesa per il 36 per cento.

Anche Diego della Valle ha grossi interessi in Cina con la sua Tod's: il 20,9 del totale delle vendite nei primi tre mesi del 2015 (contro il 34 nella sola Italia) tramite i 79 negozi monomarca nel Paese, per un fatturato complessivo di 257,7 milioni di euro da gennaio a marzo. Per Prada, invece, che paradossalmente nel 2011 ha scelto di quotarsi alla Borsa di Hong Kong preferendola al listino milanese, le cose sono state meno rosee negli ultimi tempi: un calo delle vendite del 28,8 nel 2014, in parte causato dal numero inferiore di turisti cinesi che hanno visitato il flagship shop di Hong Kong, che si trova proprio nell'area interessata dalle manifestazioni pro-democrazia dello scorso autunno. L'Asia resta dunque un mercato chiave per le griffe che stanno attraversando una fase di forti aggiustamenti dei consumi e facendo anche i conti con alcuni interventi legislativi come il taglio dei dazi per i prodotti moda e lusso avviato dal governo di Pechino dal primo giugno. Taglio che da una parte fa felice il made in Italy ma dall'altra sballa gli acquisti a Hong Kong e potrebbe avere un effetto boomerang per lo shopping turistico cinese in Europa. Oltre al lusso, ieri ha sofferto anche il titolo della Brembo (-1,97), il gruppo leader nella produzione di freni che nella Repubblica Popolare è presente già da dodici anni. Nelle sale operative si guarda poi agli eventuali contraccolpi in casa Pirelli dove è in corso la partita con ChemChina. Ieri il titolo del gruppo della Bicocca ha chiuso la seduta leggermente sotto la parità (-0,27) ma è scivolata a 15,05 euro poco sopra al prezzo dell'Opa dei cinesi che hanno messo sul piatto 15 euro. Per ora. Il problema è che l'operazione è condizionata a una serie di circostanze, fra cui la conferma del prezzo di 15 euro per azione. E se cambiasse, ciascuna delle due parti potrebbe recedere dal contratto.

Il crollo delle borse asiatiche, se continuerà nei prossimi giorni, rischia inoltre di stravolgere i piani di Pechino che ormai da oltre un anno sta comprando grandi e piccoli gioielli della nostra economia. Lo shopping ha già interessato quote di Eni ed Enel, Terna, Saipem, Generali, Intesa, Mediobanca, Prysmian, Telecom e Fiat. Nei giorni scorsi l'ultima operazione: la People's bank of China, cioé la Banca centrale della Repubblica Popolare Cinese, è infatti entrata nel capitale di UniCredit e Monte Paschi di Siena. Ai livelli di venerdì scorso, le quote appena acquistate valgono circa 770 milioni di euro. Somma che porta il totale degli investimenti cinesi a Piazza Affari a circa 4 miliardi di euro. Il governo di Pechino ha dato una precisa indicazione ai maggiori gruppi cinesi: «go global», diventate globali. Forse rendendosi già conto che il Pil cinese, cresciuto fino a poco tempo fa a ritmi di oltre il 7 per cento, un giorno si sarebbe fermato.

Gli appassionati di Borsa, ma anche di calcio, guardano infine al Milan: per completare l'acquisto del 48 per cento del club rossonero, il broker thailandese Bee Taechaubol dovrà portare 480 milioni entro il 31 luglio, in attesa della quotazione a Hong Kong.

Una delle Piazze più colpite dalla sindrome del Dragone.

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