Economia

Bancomat, l'ira delle partite iva. E il governo pensa al dietrofront

L'ira dei professionisti per l'ipotesi. Palazzo Chigi al lavoro per studiare come eliminare la norma contestata

Bancomat, l'ira delle partite iva. E il governo pensa al dietrofront

Roma. «Alla fine credo che lo toglieremo». Il viceministro dell'Economia, Luigi Casero, nel corso della riunione fiume per la messa a punto dei decreti attuativi della delega fiscale da portare al prossimo Consiglio dei ministri, si lascia sfuggire solo una battuta. Ma significativa: per le partite Iva c'è ancora una speranza di non essere costrette a pagare sanzioni che vanno dal 10 al 50% degli importi prelevati al bancomat per il quale non sia stato fornita giustificazione all'Agenzia delle Entrate.

Certo, finché tutto non verrà messo nero su bianco, il problema continuerà a porsi. «Mi sembra veramente folle». Anna Soru, presidente di Acta in rete (associazione dei consulenti del terziario avanzato, ossia professionisti e freelance) è colta sorpresa dall'inasprimento che deriverebbe dal comma 7 bis, trattandosi per altro di una norma bocciata dalla Consulta. «Mi sembra che si sia perso il senso della misura», aggiunge ribadendo che «come associazione siamo favorevoli alla tracciabilità dei pagamenti, ma un quotidiano non si può pagare con il bancomat». Secondo Soru, «è necessario che il fisco metta da parte la presunzione in base alla quale il contribuente che svolge un lavoro autonomo sia un potenziale evasore perché già siamo sottoposti agli studi di settore e al redditometro».

Il lavoratore autonomo, inoltre, perde anche quando ha ragione. «Dev'essere stabilita una simmetria fra Stato e contribuente - rimarca - perché non si può assegnare sempre l'onere della prova al cittadino: quando andiamo in giudizio e vinciamo la causa, ci dovrebbe essere consentito di ottenere il rimborso delle spese legali e, invece, i giudici le ripartiscono tra le parti». Che cosa accade, dunque, alla piccola partita Iva che decide di far valere le proprie ragioni? «Perdiamo del tempo sottratto al lavoro, paghiamo gli onorari dei commercialisti, dei tributaristi e degli avvocati per perorare le nostre cause e alla fine ci rimettiamo anche del denaro», osserva.

Insomma, sottolinea, «a questi strumenti persecutori bisogna opporre il coraggio di stilare un nuovo patto fiscale: ci si può anche attrezzare per fornire un preciso rendiconto delle spese effettuate in contanti, ma non lo si può fare senza avere qualcosa in cambio». Ad esempio, la prima richiesta è quella dell'ampliamento della no tax area (l'esenzione Irpef ndr ) che per gli autonomi è ferma alla soglia di 4.800 euro a fronte degli 8mila euro concessi ai lavoratori dipendenti.

Il concetto è molto semplice: le partite Iva non possono essere soltanto spremute, ma «bisogna fornire qualche incentivo di tipo fiscale, magari anche estendendo ai piccoli contribuenti autonomi il bonus da 80 euro». La presidentessa di Acta in Rete, in queste settimane, sta combattendo una battaglia ancor più dura: quella sul regime dei minimi, ossia le agevolazioni fiscali e burocratiche concesse agli autonomi che denunciano ricavi inferiori a una predeterminata soglia che, se si confermasse il regime delineato dal governo, dall'anno prossimo dovrebbe scendere da 30mila a 15mila euro. «In questo modo gli incentivi sono veramente ridotti: se fosse confermato, converrebbe solo ai professionisti che hanno poche spese, quelli che sono all'inizio», denuncia ricordando che è difettoso anche il meccanismo che convoglia tutte le agevolazioni alla parte contributiva e non a quella fiscale.

«È una situazione assurda - conclude - perché il risparmio che otteniamo da una parte potrebbe essere totalmente eroso da un'aliquota al 15% che per i piccoli non è sostenibile».

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