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"Via adesso o mai più". L'accelerazione di Matteo per non finire all'angolo

Il senatore tiene alta la suspense sul nuovo partito. Gli appelli del Pd contro la scissione

"Via adesso o mai più". L'accelerazione di Matteo per non finire all'angolo

Lo fa, non lo fa, quando lo fa, chi lo segue, chi lo molla. Tra appelli contro la scissione e frenetici conteggi dei parlamentari che potrebbero uscire a momenti (o a giorni, o a settimane) dal Pd, ieri tutti i riflettori politici erano di nuovo puntati su Matteo Renzi.

E, siccome l'attenzione mediatica non gli dispiace, molta della suspense che viene alimentata attorno all'oggetto misterioso del «nuovo partito renziano» è mirata proprio a questo: prolungare il thriller e tenere alto l'interesse attorno alle possibili mosse dell'ex premier, preparando il terreno alla kermesse della Leopolda di ottobre. Stamattina un'intervista su un quotidiano, stasera la presenza a Porta a Porta con Bruno Vespa, domani un altro talk show: l'importante è tenere la ribalta.

«I nuovi gruppi nasceranno in settimana», assicura chi segue passo passo, insieme a Renzi, l'operazione. Alla Camera saranno «più di venti» i deputati che lasceranno il Pd per migrare un po' più al centro, si garantisce: più quindi della soglia necessaria a costituire un gruppo autonomo. Al Senato invece le uscite saranno assai più ridotte, e si confluirà nel gruppo Misto. Il renzianissimo presidente dei senatori dem, Andrea Marcucci, resterà invece al suo posto, col paradossale risultato che il Pd avrà un capogruppo filo-scissionista. Anche se tutti i renziani assicurano che non di «scissione» bisogna parlare, e lo stesso ex premier si spazientisce: «Non dovete interpretare cose nuove con categorie vecchie», come quella della «scissione», per l'appunto.

In realtà Renzi sa bene che, se vuole far nascere una nuova forza che allarghi verso il centro il centrosinistra, la finestra temporale è questa. Ora che, grazie agli scossoni da lui provocati, Salvini è stato balzato di sella e il nuovo governo giallorosso garantisce il proseguio della legislatura. Su cui Renzi ha intenzione di influire ben più di quel che potrebbe fare come esponente della minoranza Pd.

Forse non è un caso che proprio nel pieno dell'estate, mentre maturava la crisi del governo Lega-5Stelle, il fund raising dei Comitati civici renziani abbia avuto una improvvisa impennata: da 20mila euro in giugno a 260mila in luglio, e poco meno in agosto. Con donazioni record come quella di 100mila euro fatta da Daniele Ferrero della Venchi.

Alla sfida renziana, il Pd di Zingaretti (nel quale «presto entreremo», racconta giulivo in giro il neo-ministro dalemiano di Leu Roberto Speranza, offrendo così ai renziani un bel pretesto per andarsene) ha risposto con una certa abilità, predisponendo le contromisure: ha offerto posti a iosa nel governo a parlamentari di quell'area, ben sapendo che un neo-sottosegretario ci pensa non una ma dieci volte prima di rompere col partito che lo ha messo lì. Ha promesso una gestione «unitaria» del partito alla componente di Luca Lotti e Lorenzo Guerini (nel frattempo diventato ministro della Difesa), determinando una rottura tra loro e Renzi. Ha fatto circolare la voce di voler offrire la presidenza Pd ad un renziano doc. E negli ultimi giorni ha orchestrato un coro massiccio di appelli anti-scissione, facendo scendere in campo tutte le anime del partito: da Franceschini a Letta, da Orfini a Parisi. Fino a esponenti che nel tempo sono stati vicinissimi a Renzi, come Giorgio Gori, Alessia Morani, Salvatore Margiotta, Stefano Ceccanti e molti altri.

Un modo per lasciare tutto a Renzi il cerino della rottura, e sottrargli più argomenti e numeri possibile, in vista di una rottura che al Nazareno si aspettavano da tempo.

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