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All'Onu si cerca una soluzione diplomatica. Ma pesano le "sanzioni durissime" di Donald

Dagli Usa il bastone e la carota: apertura al dialogo ma anche la minaccia di pesanti ritorsioni. Teheran chiede alla Ue di prendere posizioni indipendenti

All'Onu si cerca una soluzione diplomatica. Ma pesano le "sanzioni durissime" di Donald

Il braccio di ferro tra Stati Uniti e Iran si è trasferito, almeno per il momento, dal campo militare a quello delle parole (il che non va confuso con quello della diplomazia, per il quale forse ci sarà spazio in futuro, ma più probabilmente no). Il sollievo generale per l'allontanarsi dello spettro di una guerra è comprensibile, ma tutto ciò non significa che la tensione tra i due Paesi sia calata, né che sia destinata prossimamente a scemare: sono cambiate, semplicemente, le modalità del confronto.

Ieri, il giorno dopo le sue comunicazioni ai giornalisti, Donald Trump ha da una parte ribadito ufficialmente la disponibilità americana a perseguire il dialogo con Teheran, ma dall'altra ha continuato a brandire il nodoso bastone delle sanzioni contro la Repubblica islamica, annunciandone di nuove e pesantissime. La sua strategia, appare ormai chiaro, consiste nel tentare di costringere l'Iran a negoziare con Washington alle sue condizioni, e sempre sotto il tiro del temibilissimo arsenale a disposizione del Pentagono. Il tutto mentre la diplomazia americana è già al lavoro con un obiettivo talmente ambizioso da sembrare una scommessa, o a voler pensare male qualcosa di consapevolmente inattingibile: convincere gli alleati europei a ritirarsi dall'intesa sul nucleare iraniano, cosa che lui ha già fatto da tempo.

Alla classica strategia del bastone e della carota proposta da Trump, il regime iraniano risponde a sua volta con un messaggio doppio e di fatto contraddittorio. Da una parte, come ha detto l'ambasciatore all'Onu Majid Ravanchi, respinge come «non credibili» le offerte di dialogo pur assicurando di non avere intenzione di entrare in guerra con gli Stati Uniti. Dall'altra però, affida ai vertici dei Guardiani della Rivoluzione il compito di inviare un monito minaccioso: l'Iran, colpendo le basi Usa in territorio iracheno, ha dimostrato la sua potenza militare e continuerà a lanciare i suoi missili contro obiettivi americani in Medio Oriente. Obiettivo di questa azione, come ha spiegato il capo delle forze aeree delle milizie del regime Amir Ali Hajizadeh, non è uccidere i soldati inviati da Trump, ma conseguire «la sola vendetta appropriata per l'uccisione di Soleimani», ovvero la cacciata delle truppe americane dal Medio Oriente.

Contemporaneamente, Teheran ha aperto un fronte diplomatico mirante a dividere l'Europa dagli Stati Uniti. L'ambasciatore Ravanchi addossa agli americani la responsabilità di aver aperto l'escalation di tensioni assassinando Soleimani, dimenticando il ruolo del generale nell'uccisione di migliaia di soldati americani nel corso di anni di guerriglia in Iraq: Teheran dunque si starebbe solo difendendo. E il presidente della Repubblica islamica in persona, Hassan Rohani, si è rivolto al presidente del Consiglio Europeo, il belga Charles Michel, denunciando le «azioni terroristiche degli Stati Uniti» e chiedendo all'Europa di rispondervi assumendo «posizioni indipendenti da Washington». Michel ha risposto invitando Rohani a «evitare azioni irreversibili» e garantendo che l'Ue «lavorerà per stemperare le tensioni».

L'Europa viene tirata per la manica della giacca anche dagli americani. Il vicepresidente Mike Pence ha anticipato che Trump «chiamerà presto i leader dei Paesi europei firmatari dell'intesa sul programma nucleare iraniano» per chieder loro di abbandonare l'accordo siglato nel 2015.

Impresa ardua: perfino il premier britannico Boris Johnson, molto vicino a Trump, ha assicurato ieri a Rohani l'impegno di Londra su quell'intesa in cambio della fine delle ostilità con gli Usa.

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