Politica

Anche Mieli stronca Renzi

L'ex direttore del Corriere sottolinea che "tanto più le classi dirigenti esibiscono i propri successi, tanto meno a queste manifestazioni di autostima corrispondono lodi degli interlocutori"

Anche Mieli stronca Renzi

La prende alla larga Paolo Mieli per attaccare Renzi. Inizia dal 1861, dagli albori dell'Italia unita. Cita Crispi e Giolitti per stroncare quella che giudica come la politica sbagliata dei toni alti: "Sono toni non nuovi nella storia d'Italia, che hanno precedenti nelle fasi più instabili del nostro passato e quasi mai hanno prodotto esiti all'altezza degli enunciati". La stroncatura del direttore di Rcs libri non è veemente come quella di Ferruccio de Bortoli, all'epoca direttore del quotidiano di via Solferino. Però è lo stesso molto pesante.

Mieli prende di mira una frase che Renzi usa spesso quando parla dei suoi viaggi all'estero, l'Italia non si presenta più con il cappello in mano. Una retorica con cui il premier toscano prova a ostentare una grande forza, in grado di portare a casa i risultati. Poi, analizzando il prossimo incontro fra la Merkel e Renzi, non di fa troppe illusioni: "Si prenderà atto che i rapporti fra i due Stati sono eccellenti, che qualche problema rimasto sul tappeto è in via di soluzione, talché i giornali del giorno seguente racconteranno del successo del summit".

Il direttore di Rcs libri parla dei primi sforzi in politica estera dell'Itali post unitaria, dopo le pesanti sconfitte militari di Lissa e Custoza: "Mentre il Paese si avviava alla stagione del trasformismo, forse per compensazione alle difficoltà politiche interne, le voci cominciarono ad alzarsi. Il povero ministro degli Esteri Luigi Corti - un ex diplomatico con ottime credenziali - reo di aver enunciato al congresso di Berlino (1878) la saggia politica delle 'mani nette', cioè della non partecipazione alla corsa coloniale, fu sommerso di contumelie. Insulti che presto trovarono qualcuno pronto ad 'interpretarli': il console italiano a Tunisi, Licurgo Macciò, mobilitò armatori e imprenditori per conquistare posizioni nella terra del Bey. Risultato? La Francia si allarmò e nel 1881 con un colpo di mano impose il suo protettorato sulla Tunisia. Le voci in Italia contro la politica delle «mani nette» (presentate adesso come 'mani vuote') si alzarono al massimo, ne fu travolto il governo guidato dall’ultimo dei fratelli Cairoli, Benedetto, e da quel momento i nostri politici si dovettero cimentare con le idee di grandezza messe in campo dai più intransigenti, da intellettuali e soprattutto da poeti del calibro di Giosuè Carducci, Giovanni Pascoli (in contrasto con la sua cifra poetica), fino agli eccessi di Gabriele D’Annunzio".

Poi arriva l'Italia di Giolitti e dell'Italia "mai più con il cappello in mano" che prova l'avventura coloniale. E del Giolitti a cui andò meglio con la guerra in Libia "solo perché nell’immediato furono in pochi a misurare il rapporto tra costi (altissimi) e benefici (pressoché inesistenti) di quell’impresa", ma non quando esitò a prender parte alla Prima guerra mondiale e "mancò poco che venisse linciato". E quindi di Benito Mussolini che "nel nome dell’orgoglio italico il nostro Paese prese parte ai due conflitti che nel Novecento sconvolsero il pianeta, uscendone ammaccato e la seconda volta ferito quasi a morte". Dopo il conflitto mondiale, scrive ancora Mieli, "iniziò la stagione migliore della nostra storia impersonata da Alcide De Gasperi".

Mieli conclude la propria analisi prendendo in esame gli ultimi venti anni, col riemergere di "quel vizietto italico". E punta il dito, ovviamente, contro Silvio Berlusconi, accomunato all'attuale premier, Matteo Renzi. "Adesso la tentazione di insistere nell’assunzione di posture baldanzose appare di nuovo forte - scrive l'ex direttore del Corriere -. Soprattutto nei modi (e non solo quelli della politica) di rivolgerci alla Germania, un Paese che prima e dopo la riunificazione ha realizzato qualcosa che porterà tutti i suoi leader, da Adenauer alla Merkel, ad avere un posto d’onore nei libri di storia. Qualcuno, certo, può cedere alla tentazione di compiacersi per inciampi, come lo scandalo Volkswagen o il capodanno di Colonia, che sono lì a raccontarci come anche i tedeschi abbiano problemi da risolvere. E questo qualcuno può pensare di conseguenza che ci si possa presentare a Berlino con una qualche baldanza. Ma non è saggio. Un debito e una spesa pubblica come i nostri ci mettono in condizioni peggiori di quanto fossero quelle di oltre un secolo fa quando avevamo alle spalle Lissa e Custoza. E per quel che riguarda i nostri successi, il ruolo nuovo che abbiamo conquistato nel consesso internazionale, aspettiamo che siano gli altri a prenderne atto. Le lodi che ci diamo da noi, valgono poco.

Anzi, niente".

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