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Anche nel 2015 economia ferma All'Europa serve tornare al voto

Nessun beneficio da svalutazione dell'euro e calo del greggio. Eleggiamo il nuovo presidente poi otto Paesi Ue vanno alle urne: unico modo per arginare Berlino ed evitare il contagio greco

Anche nel 2015 economia ferma All'Europa serve tornare al voto

Ha ragione Draghi, ha torto il Financial Times. Venerdì 2 gennaio, proprio nel giorno in cui Matteo Renzi apriva all'ipotesi di un tecnico al Quirinale, dalle pagine dell' Handelsblatt il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, affermava di non essere un politico. Quindi, dati i tempi, perfetto per assumere la più alta carica dello Stato. Al di là dei segnali lanciati sui giornali dei primi giorni del 2015 dai vari protagonisti della vicenda Quirinale, si va sempre più diffondendo il pensiero che Mario Draghi sia davvero il candidato ideale per la presidenza della nostra Repubblica.

Perché a Renzi potrebbe andar bene Mario Draghi al Quirinale: perché dopo un anno di slide e annunci scintillanti deve realizzare tutte le sue promesse impossibili. E da solo non ce la fa. Siccome la Troika non la vogliamo, l'unico che può davvero aiutare il presidente del Consiglio a cogliere i frutti buoni del suo lavoro è proprio il presidente della Bce, per la sua credibilità internazionale e per tutte quelle altre sue doti che conosciamo benissimo ed è inutile ripetere: Mario Draghi si presenta da solo.

Perché Mario Draghi dovrebbe accettare di diventare presidente della Repubblica italiana: perché non possiamo non notare che il suo ruolo al vertice della Bce comincia a sbiadirsi. Dopo anni di annunci di decisioni forti per l'area euro e di ricorso a misure non convenzionali per salvare la moneta unica, i mercati cominciano a non credergli più.

È vero che il mandato di Draghi alla Bce termina nel 2019, ma da quest'anno in poi gli sarà consentito di agire per come intende lui la politica monetaria europea o verrà bloccato dai tedeschi? In questa prospettiva l'exit strategy Quirinale sarebbe perfetta, anche per aggiungere un ulteriore tassello alla sua brillante carriera. E poi un'altra considerazione. Da anni Mario Draghi ci ripete che l'azione della Bce da sola non basta per salvare l'integrità della moneta unica e dell'intera area dell'euro: servono le riforme da parte dei singoli Stati. Un'occasione unica per cominciare questo processo dall'Italia.

Il Quirinale sarebbe quindi per Draghi la degna continuazione e conclusione del suo lavoro alla Bce. Ne deriva che, al contrario di quanto scriveva il Financial Times a capodanno, non è Renzi l'«ultima speranza» dell'Italia, bensì il professor Draghi.

Certo, le incertezze non mancano. A partire dalle vicende greche, il cui possibile contagio è stato escluso troppo precipitosamente dal ministro dell'Economia, Pier Carlo Padoan. La percezione di quel pericolo, se ve ne fosse piena coscienza, dovrebbe spingere in una direzione diversa: la ricerca, appunto, del massimo della condivisione nella scelta del futuro Capo dello Stato, basata sull'unità delle «forze democratiche e progressive», come si diceva una volta. E Mario Draghi risponde perfettamente a questo identikit. Nessuno, né dentro il Partito Democratico, né dentro Forza Italia, potrebbe dire no a un nome così forte.

Ne esistono le condizioni? Il secondo luogo comune da sfatare, sostenuto anch'esso erroneamente dal FT , è che Forza Italia sia una compagine votata all'euro scetticismo. Le critiche che abbiamo avanzato negli anni della crisi riguardano soprattutto la politica tedesca.

L'euro, al di là delle inutili retoriche, può sopravvivere solo se tutti i Paesi faranno la loro parte in nome di un interesse comune. Questo significa, forse, ipotizzare un'uscita unilaterale dell'Italia dalla moneta unica, come lascia intendere il Financial Times ? Non diciamo sciocchezze. Resteremo nell'euro e lotteremo con tutte le nostre forze per una correzione di rotta, a partire dal sostegno incondizionato a Mario Draghi come presidente della Repubblica.

Difficile, infine, dar torto al Financial Times quando ricorda a molti smemorati che «dalle dimissioni di Berlusconi nel novembre del 2011, l'Italia ha avuto tre premier senza che nessuno di loro avesse ottenuto un mandato degli elettori». Problema sempre sottovalutato, spesso del tutto ignorato, dalla maggior parte dei commentatori italiani. E dispiace che debba essere un autorevole giornale straniero a ricordarlo. Questo vulnus alle regole più elementari della democrazia non è stato senza conseguenze.

Sta di fatto che l'azione politica di Renzi ha incontrato ostacoli insormontabili che non dipendono dalla nostra opposizione. È il suo stesso partito che lo costringe, dal Jobs act alle riforme costituzionali ed elettorali, a continui compromessi a ribasso. L'attività ordinaria (si pensi solo all'ultima Legge di stabilità), si sminuzza in mille rivoli, sull'orlo di un nuovo precipizio rappresentato dalla clava delle clausole di salvaguardia. Quell'aumento dell'Iva e delle imposte indirette che non sarà facile evitare, viste le resistenze che in Italia accompagnano ogni ipotesi di Spending review o di dismissione del patrimonio pubblico. Ai limiti oggettivi di una governance che, come mostrano i dati che illustrano una caduta del Pil superiore alle più nere previsioni, non riesce a dare il minimo impulso reale al Paese, si risponde solo con esercizi di puro e gratuito ottimismo.

Pier Carlo Padoan sembra ripetere il fatidico #staisereno. Non vi sarà alcun contagio da parte della Grecia, se le cose dovessero andar male. Una pietosa bugia. Se si arriverà ad una moratoria del debito ellenico, le perdite conseguenti saranno poste a carico degli altri Paesi, per via del Fondo Salva Stati e del rifinanziamento da parte della Bce. Si inasprirà il conflitto che già ora divide il fronte Nord dell'Europa (Germania in testa) dagli altri Paesi, fin troppo esposti con il loro debito sovrano. In una spirale dagli esiti imprevedibili, a causa della possibile reazione dei mercati.

La tendenza dell'euro a svalutarsi, forte nei mesi passati, si è attenuata. E, se essa è davvero favorita, come sembra, da movimenti di capitale alla ricerca di un approdo sicuro negli Stati Uniti, non poteva essere altrimenti. È tuttavia contrastata dal forte attivo delle partite correnti della bilancia dei pagamenti europei, al quale, la Germania contribuisce per una percentuale che sfiora l'80%. La stessa caduta del prezzo del petrolio, che secondo Padoan dovrebbe dare una forte spinta alla crescita del Pil, si tradurrà, invece, in uno stimolo a bassissima intensità, dato il forte gravame fiscale vigente in Italia. Secondo l'Istat «nel 2015 l'impatto sarebbe nullo». Altro che il +0,5% indicato da Pier Carlo Padoan. Che morale trarre dall'insieme dei dati che con onestà intellettuale (ci sia riconosciuta) abbiamo riportato? Che non è bastato a Matteo Renzi il successo delle elezioni europee per far «cambiare verso» all'Italia. La spiegazione è evidente: una cosa è stata quella sorta di plebiscito a favore del «nuovo» e influenzato dalla spudorata mancia degli 80 euro. Altra cosa sono le regole democratiche. Presuppongono vere elezioni politiche e non un loro succedaneo. Forze che scendono in campo, dotate di un proprio leader e di un programma che si sottopone al popolo. Leader al quale non si chiede solo un generico consenso, ma una piena assunzione di responsabilità nel realizzare un programma di governo che, per quanto difficile possa essere, racchiude sempre una speranza di futuro. Tutto questo in Italia non accade da fin troppo tempo.

Per tre lunghi anni la democrazia italiana è stata sospesa, sostituita da una tecnocrazia dotata di un presunto «sapere» che le consentisse di poter prescindere dalle regole della rappresentanza. Regole che, al contrario, sono la forza vera di ogni nazione. Oggi è sotto gli occhi di tutti che questa sospensione della democrazia non ha funzionato. Lo stesso Giorgio Napolitano, nel discorso di fine anno, ha affermato che con le sue dimissioni questa fase eccezionale della Repubblica italiana deve chiudersi. E quest'anno voteranno otto paesi (Danimarca, Estonia, Finlandia, Grecia, Polonia, Portogallo, Spagna, Gran Bretagna). La migliore risposta democratica allo strapotere della Germania.

E se invece che otto a votare fossero in nove sarebbe anche meglio.

 

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