Cronaca giudiziaria

Un anno di udienze conferma i sospetti. "Vittime di incuria"

C'era una sorta di peccato originale, ma nessuno volle aprire gli occhi. È impossibile abituarsi all'orrore, quarantatré croci nel nulla di un ponte sbriciolato

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C'era una sorta di peccato originale, ma nessuno volle aprire gli occhi. È impossibile abituarsi all'orrore, quarantatré croci nel nulla di un ponte sbriciolato, ancora di più se la catastrofe è stata preceduta e favorita da sciatteria, menefreghismo, e naturalmente da una dose sciagurata di sottovalutazione dei rischi che il plotone di tecnici e controllori aveva afferrato. Il processo per la tragedia del Morandi dopo un anno di udienze racconta tutto questo. Con narrazioni che fanno cadere le braccia, perché tutti quelli che potevano alzare la mano andarono a testa bassa incontro al destino e la sorte il 14 agosto 2018 presentò il conto.

Il dibattimento, in cui si contestano una sfilza di reati, dall'omicidio colposo plurimo all'attentato alla sicurezza dei trasporti, è ancora lontano dalla conclusione che dovrebbe arrivare fra non meno di un anno, ma le testimonianze ascoltate sono eloquenti.

Così Giovanni Mion, ex amministratore delegato di Edizione, la holding dei Benetton, confessa: «Vi fu quella riunione dove venne evidenziato il problema di progettazione. Ma nessuno pensava che crollasse Era qualcosa fuori dall'orizzonte, anche se gli scricchiolii si susseguivano e tutti li avvertivano. Ma si nascondevano i problemi sotto il tappeto dell'abitudine: «Che la stabilità dell'opera venisse autocertificata - prosegue Mion, sempre più provato - per me era una stupidaggine e mi aveva fatto impressione».

Ma anche Mion si adeguò all'andazzo generale. Perché?, insistono i giornalisti. «Dopo quella riunione avrei dovuto fare casino, ma non l'ho fatto, forse perché tenevo al mio posto di lavoro». Per quieto vivere. «È andata così, nessuno ha fatto nulla e provo dispiacere».

A cinque anni dal disastro, il 95% degli oltre 200 familiari dei caduti è stato risarcito ed è uscito di scena. Ma i racconti mostrano sempre l'inadeguatezza dell'apparato che avrebbe dovuto sorvegliare il «grande malato» e invece, comunque vada a finire tutta questa storia, tirò a campare. O meglio, ci si limitò al minimo che però era meno dell'indispensabile.

«Controllavamo le autostrade transitando in auto ad una velocità adeguata», rivela con parole sconcertanti l'ingegnere del Mit Andrea Bertagni. Si facevano semmai verifiche di facciata: «La segnaletica, l'altezza dell'erba, le buche nell'asfalto». Per il resto parlavano i numeri: «Eravamo tre o quattro». «Il ministro lo sa bene che qui siamo quattro gatti», si sente in un'intercettazione fra dirigenti tre mesi dopo il crollo.

«Il processo - riassume Egle Possetti, presidente del Comitato dei parenti delle vittime - è difficile e ci sono tanti imputati».

Cinquantanove ai nastri di partenza, a fronte di 350 parti civili. «È stato un anno in cui abbiamo visto emergere elementi aggiuntivi sempre più importanti, che confermano quello che noi parenti sapevamo: quel ponte è stato abbandonato a se stesso per molti anni e ce lo dicono proprio i testimoni». Dopo la pausa estiva, arriverà il turno degli imputati. Giovanni Castellucci, ex ad di Autostrade per l'Italia, ha già fatto sapere che ci sarà.

Intanto, prende corpo un secondo filone, il Morandi bis, che intorno alla tragedia individua altre pagine di vergogna. Dai falsi report su viadotti e gallerie alle barriere fonoassorbenti che per il vento rischiavano di colpire le auto in corsa. Pochi giorni fa, la procura di Genova ha fatto partire 47 richieste di rinvio a giudizio.

La verità giudiziaria è ancora lontana, ma il quadro purtroppo è fin troppo chiaro.

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