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Attacco a Save the Children: sei morti

Ong nel mirino dei kamikaze. I dubbi sulla missione italiana a Kabul

Attacco a Save the Children: sei morti

«Che ci facciamo ancora lì?». La domanda non è retorica. L'intervento afgano dura dal 2001 e l'Italia c'è dentro dal 2002. Eppure, nonostante i 900 miliardi investiti da Stati Uniti e alleati, talebani e Stato Islamico sono all'offensiva. L'attacco di ieri alla sede di Save the Children di Jalalabad con sei cooperanti uccisi e 24 feriti a pochi giorni dall'ancor più sanguinoso assalto all'Hotel Intercontinental di Kabul pone inevitabili interrogativi sull'utilità della nostra presenza. In Afghanistan abbiamo investito più di otto miliardi di euro, oltre alle vite di 53 militari e al sangue di 650 feriti. A cos'è servito? A cosa punta la permanenza dei 900 soldati italiani ancora presenti? A che serve lasciarne solo 700 come propone il ministro della Difesa Roberta Pinotti? In teoria dai primi del 2015 sono lì per formare l'esercito afghano nell'ambito della missione Resolute Support. In verità dovevano rientrare già a fine di quell'anno. Restarono soltanto per compiacere l'«amico» Obama che nell'ottobre 2015 «chiese» all'allora premier Matteo Renzi di dilazionarne il ritiro. Ma proprio i fallimentari ritiri afghani di Obama hanno vanificato la nostra presenza. L'esercito afgano è ormai allo sbando. E mentre i soldati afgani disertano o collaborano con gli insorti i talebani dilagano. Stando al Sigars (Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction) - l'autorità ispettiva del Congresso statunitense - Kabul controlla oggi solo il 57 per cento del territorio contro il 72 per cento del 2015. E più di nove milioni di afgani vivono in distretti controllati o minacciati dagli insorti.

Come noto per debellare un'insurrezione non basta uccidere molti nemici. Bisogna innanzitutto cancellarne le cause politiche e sociali garantendo la sicurezza dei civili. E bisogna farlo in tempi brevi. Un'insurrezione in piena espansione dopo 17 anni d'interventi stranieri appare inevitabilmente vincente. La partita è, insomma, inesorabilmente perduta. In questo contesto restare in Afghanistan non è solo costoso, inutile e pericoloso, ma anche dannoso. Rimanere senza un perché rafforza l'immagine di un'Italia priva di visioni strategiche e incapace di difendere i propri interessi nazionali. Oggi quegli obbiettivi strategici non sono certamente in Afghanistan nonostante i mille miliardi di metalli e minerali preziosi nascosti in quel sottosuolo. A disputarsi quelle risorse ci stanno già pensando russi, cinesi e americani. Le nostre ricchezze, e le nostre vulnerabilità, sono invece in un Mediterraneo e in un Nord Africa dove la lotta per il controllo delle risorse energetiche s'incrocia con la minaccia terroristica, le rotte dei migranti e il traffico di uomini. Lì serviranno nei prossimi anni e decenni i nostri militari e il nostro impegno. Solo affinando e potenziando le nostre strategie garantiremo all'Italia un ruolo politico ed economico sullo scacchiere internazionale.

Per questo l'addio all'Afghanistan non sarà una ritirata, ma uno sguardo al futuro.

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