Cronache

Diabolik contro Ginko. La lunga sfida su strada tra Londra e Varese

Diabolik contro Ginko. La lunga sfida su strada tra Londra e Varese

L'ispettore Ginko si chiamava e si chiamerà per sempre Flaminio. L'ispettore aveva e avrà per sempre un cognome, Bertoni. L'ispettore Ginko aveva una vita segreta così affascinante e magica che quello splendido farabutto, delinquente, assassino di Diabolik non avrà mai. Perché l'ispettore Ginko era un artista.

«E adesso va a dormire». A Masnago, varesotto fiero e ordinato di altri tempi, Masnago che in fondo esiste e non esiste più visto che dal 1927 è un rione di Varese, c'era una madre che al proprio ragazzo diceva ogni sera la frase più banale che un genitore possa pronunciare. Il ragazzo, appoggiato allo schienale della sedia, le mani intrecciate dietro la testa, neppure si voltava a guardarla in viso, «sì, mamma» rispondeva, e in bilico sulla sedia continuava a guardare il soffitto. Non era un perditempo Flaminio, era un sognatore. O forse molto di più. In quel soffitto ingiallito dagli anni e dalla luce fioca, vedeva Leonardo da Vinci, vedeva Michelangelo Buonarroti, vedeva opere che non lo avrebbero reso acclamato come i due geni del Rinascimento italiano, ma presente per sempre dentro tutti noi.

Diabolik era e sarà per sempre più giovane di Ginko. Era nato una decina di anni dopo, all'inizio del primo conflitto mondiale. Oltre Manica, suddito di Sua Maestà, in un ordinato villaggio della contea di Norfolk. Diabolik si chiamava e si chiamerà per sempre Malcolm Sayer. Malcolm non sognava, non guardava il soffitto, non pensava ai grandi geni italiani e neppure a quelli della sua amata Inghilterra. I genitori di Malcolm non facevano domande, i genitori di Malcolm non lo spronavano a studiare o a dormire, non ce n'era bisogno. Malcolm era meticoloso e aveva la testa china sui libri e non fantasticava: faceva calcoli. S'appassionava alle formule che penetravano l'aria e i cieli che all'epoca solo in pochi abitavano. Masnago stava stretta all'ispettore Ginko e la gente della zona lo considerava anche un po' strano. Non matto, ci mancherebbe. Solo strano, introverso, all'improvviso duro, schietto, persino brusco, e d'un tratto dolce. Però mai docile. La gente, senza mai farsi scoprire, lo prendeva in giro. Era convinta che fosse un perdente. Con una licenza tecnica in tasca e un martello in mano picchiava la latta in una carrozzeria famosa della zona, la Macchi. I titolari avevano subito capito che il giovane, seppur strano, aveva talento. Dal metallo sottile e ammaccato tirava fuori cose che assomigliavano a piccole opere d'arte. Erano stupiti. «E di cosa?» pensava Flaminio. Per lui era normale. «In fondo» diceva e avrebbe ripetuto mille volte ancora, «le automobili non sono altro che sculture rovinate dalle ruote». E poi, dopo aver studiato per anni i lavori di Leonardo e Michelangelo, dopo aver trascorso notti sveglio a modellare la creta, che «volete che sia farlo con la latta?» domandava e si domandava.

Cromer, il suo villaggio, neppure esisteva per Malcolm. Diabolik guardava oltre. «Voglio andare al Loughborough College» ripeteva in famiglia non appena alzava la testa dai libri e dalle formule. L'istituto era famoso per offrire una serie di corsi e apprendistati altamente tecnici. Malcolm li divorò praticamente tutti. Negli anni a venire, fu per lui quasi un gioco prendersi la laurea in Ingegneria. Mentre l'ispettore Ginko picchiava martellate sulla latta e girava per Masnago guardato un po' così, Diabolik era in bilico tra un futuro da ingegnere e professore. Trovò subito impiego in campo aeronautico, in una azienda di Bristol. La vita gli sorrideva.

L'ispettore Ginko invece sorrideva poco. Abbozzò qualcosa di simile solo quando, nei primi anni Venti, una delegazione di tecnici della Citroën piombò nella carrozzeria di Varese. Rimasero tutti stupiti dalla genialità dei suoi lavori. Alla Macchi, Flaminio era considerato un visionario, ai transalpini apparve subito per quello che era: un fuoriclasse. Solo che non glielo dissero. Si limitarono a un invito: «Se un giorno vuole venire da noi a Parigi per un viaggio esplorativo...». Frase lasciata cadere dall'alto seguita da paroloni in burocratese che sugli artisti hanno poca presa. Fatto sta, l'ispettore Ginko ci mise un po' a convincersi, quindi prese le sue cose e passò la frontiera. Con sé aveva tutto il bagaglio delle proprie visioni e la consapevolezza che con la lingua francese avrebbe sempre fatto a pugni.

La vita aveva smesso di sorridere a Diabolik. Come a tutti. Era stata una buona vita fin lì, poi era scoppiata la Seconda Guerra Mondiale. I suoi calcoli all'aviazione facevano comodo e a lui faceva comodo avere un lavoro e aiutare il proprio Paese. Anche sotto le bombe bisogna però trovare la forza di giocare. Malcolm si mise a fantasticare. Era una delle prime volte che si lasciava trasportare dalla fantasia; anche in quel caso, alla fine, tornò però in mezzo ai numeri e ai calcoli. E fu la prima volta che dagli aeroplani passò alle automobili. Con alcuni amici si era messo in testa di progettare una super sportiva da presentare a qualche costruttore terminato il conflitto. Grazie a Dio fu proprio così. La guerra terminò. L'auto non vide però mai la luce. Diabolik partì per un lungo viaggio. Direzione Baghdad. Cercavano un ingegnere specializzato.

Il viaggio fu breve. A Parigi, l'ispettore Ginko pensò che l'arte e le visioni e il talento avevano bisogno di una spinta. E si fece coraggio. Posò la valigia in una piccola pensione, indossò il vestito buono, che poi era quello del viaggio una volta lavato e stirato alla bell'e meglio, e andò a bussare alla porta di André Gustave Citroën. Nella borsa teneva un'idea che cullava da tempo: un saliscendi pneumatico per i finestrini delle automobili. Era il 1923. Sembravano fogli piombati dallo spazio. Il fondatore sgranò gli occhi, li mostrò alla moglie Giorgina, sua fidata consulente in tutto ciò che guardasse al futuro. E assunse il battilatta varesino. Anche l'ispettore Ginko pensò che in fondo la vita non fosse affatto male. Però come sempre non lo fece capire.

Diabolik a Baghdad si era incazzato. Il lavoro da ingegnere non c'era. Per fortuna non ammazzò nessuno. Fece il professore e incontrò un luminare tedesco che gli insegnò come modellare i corpi che scorrono nell'aria con le formule matematiche. Due anni dopo rientrò in patria e mostrò il concetto del CX, il coefficiente di resistenza aerodinamica, applicato alle auto. I capi Jaguar ci misero un nanosecondo a capire di aver davanti il proprio futuro, «quest'uomo è capace di trasformare il vento in inchiostro» disse uno di loro. E lo assunsero.

L'ispettore Ginko a Parigi stava bene. Flaminio Bertoni era stato soprannominato l'Italiano Furioso. Non sapeva nulla di cx ma sapeva di bellezza e natura e queste, se abbinate, bucano l'aria e il cuore della gente. Progettò macchine meravigliose e un giorno del 1954 regalò all'ispettore Ginko e a tutti noi la vettura berlina più bella e avveniristica di sempre: la Citroën DS.

Anche Diabolik non se la passava male, anzi, a dirla tutta, forse Malcolm Sayer se la passava meglio di Bertoni. Se non altro la Jaguar non aveva la policy di tenere segreti e nell'anonimato i propri progettisti e designer. Per cui godette di più gloria in vita. Meritata. A Diabolik consegnò l'icona sportiva per eccellenza: la Jaguar E-Type. Un giorno Enzo Ferrari la vide sfrecciare e disse: «Questa è l'auto più bella mai costruita». Un altro giorno, due sorelle brianzole, Angela e Luciana Giussani le comprarono entrambi. Costavano niente. Le pagarono con la fantasia. Ne diedero una all'ispettore Ginko e una a Diabolik.

Per sempre.

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