Politica

Avvertimento a Renzi: governo salvo per un voto

I eri al Senato il governo l'ha scampata per un soffio, chiamando a raccolta tutti i membri dell'esecutivo che avevano titolo per votare per evitare che mancasse il numero legale. Raggiunto per un solo voto.

No, non sulle riforme, che restano in stand by fino alla settimana prossima, ma sul decreto Competitività, su cui ieri è stata messa la fiducia e che è passato con 159 voti a favore e un solo contrario perché le opposizioni sono rimaste fuori dall'aula. Per protesta contro quello che, con la consueta misura, Beppe Grillo ieri ha chiamato «colpo di Stato», ossia la riforma del Senato.

La guerriglia insomma continua su tutti i fronti, per tentare di far inciampare Renzi e far saltare l'abolizione del bicameralismo, e vede uniti come un sol uomo leghisti e Sel, grillini e «dissidenti» tipo Scilipoti e Mucchetti. Il premier però non si mostra granché allarmato per gli effetti della resistenza dei senatori: «Tranquilli, se si fossero accorti che la fiducia poteva saltare sarebbero rientrati di corsa in aula: figuratevi se vogliono far cadere il governo e la legislatura», se la ride uno dei suoi riecheggiando i ragionamenti renziani. Anzi, il premier sprizza ironia sui social network a proposito dei drammatici appelli dei suoi strenui avversari. E così, a Grillo che denuncia il golpe di Renzi e Napolitano, ovviamente ispirato dall'immancabile Licio Gelli e sicuramente peggiore della presa del potere mussoliniana, il leader Pd replica scanzonato: «Dice Grillo che il nostro è un colpo di Stato. Caro Beppe: si dice sole. Il tuo è un colpo di sole». L' hashtag «#colpodisole» schizza in testa alla hit parade dei social network , mentre Filippo Sensi, portavoce e «spin doctor» renziano, prende scherzosamente le distanze: «Toglietegli Twitter!», invoca.

Il premier è convinto che nell'opinione pubblica l'esasperata battaglia degli anti-riforma sia perdente. Legge i sondaggi, ascolta le reazioni e si conferma nell'idea che agli elettori sia arrivato un messaggio chiaro: da una parte ci sono i «frenatori» che non vogliono cambiare niente e difendono lo status quo del Palazzo con migliaia di demenziali emendamenti, aiutati dal ricco apparato dei funzionari del Senato; dall'altra c'è lui che lo vuole cambiare e li frusta tenendoli a lavorare anche nel weekend e in agosto. «E sai la soddisfazione dell'uomo della strada a vederci qui al chiodo a sudare per suicidarci», ironizza Maurizio Gasparri. Un'immagine tanto forte da oscurare persino, in parte, le gravi difficoltà dell'economia che il governo si trova a fronteggiare. E resa ancor più popolare dalla garanzia che sarà «il popolo» ad avere l'ultima parola sulla riforma: «Dopo 4 voti in parlamento, faremo il referendum. Perché le opposizioni urlano? Di cosa hanno paura? Del voto degli italiani?», incalza Renzi.

E che la resistenza anti-riforme sia in difficoltà lo testimonia anche la confusione dei Cinque stelle: da un lato Grillo che denuncia il colpo di Stato e chiude ogni porta al dialogo, dall'altra Di Maio che implora: «Ci ripensino, aprano sui temi importanti come il Senato elettivo e l'immunità parlamentare e noi ci saremo». Persino l'implacabile Mineo alza bandiera bianca: «Fosse per me ritirerei tutti gli emendamenti, ridurrei il tutto a pochissimi voti e chiuderei la partita dopodomani per inchiodare Renzi al suo nulla».

E anche il presidente del Senato Piero Grasso cerca di smarcarsi dall'immagine di paladino della resistenza alle riforme, «attese da decenni e largamente condivise»; respinge «illazioni e sospetti» sulla sua apertura al voto segreto e difende la propria «imparzialità».

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