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"Aziende lasciate sole. Uscire dall'euro? Ci hanno già cacciati"

Il patron di Cruciani e l'allarme recessione: gli imprenditori italiani gareggiano all'estero frenati da costo del denaro e tasse

"Aziende lasciate sole. Uscire dall'euro? Ci hanno già cacciati"

Da un braccialetto a un marchio di fama mondiale in tre anni: Luca Caprai, lei è al timone della maison Cruciani, un'azienda che cresce e intende continuare a farlo. Di fronte ai dati allarmanti di questi giorni, come vede la situazione del made in Italy?

«Il vero dramma in Italia non è tanto il calo dello 0,2% del Pil in un trimestre: sono le mille aziende che chiudono ogni giorno. Non serve che l'Istat certifichi oggi la recessione tecnica, perché in realtà la recessione è cominciata molto prima, da quando negli anni '80 è iniziata la crescita del debito pubblico: lì l'Italia ha perso il controllo di se stessa. Ed è da vent'anni che abbiamo smesso di crescere, continuando a parlare di riforme che non si fanno mai. Così il nostro Paese rischia di diventare una provincia dell'Europa, buona per farci la villeggiatura, ma dove non si produce più».

Infatti, molti vanno a produrre all'estero: non voi, però.

«Produrre tutto in Italia è la nostra scelta: siamo convinti che il sistema moda è qui. Così come il nostro Paese è fortissimo nell'arredo, nella nautica, nell'enogastronomia: difficile trovare rivali. Ma molte imprese hanno dovuto delocalizzare la produzione all'estero per sopravvivere: non li condanno, purché dichiarino onestamente che non si tratta di made in Italy».

Del resto, Cruciani non vuol più dire solo braccialetti, ma anche borse, gioielli, accessori: anche questi vengono prodotti in Italia, giusto?

«Certo: i nostri partner sono piccoli imprenditori, spesso artigiani, che realizzano ancora a mano prodotti d'eccellenza. Però non hanno la nostra visibilità, e non è facile per loro ottenere finanziamenti. Quindi siamo costretti in un certo senso a fare noi da banca: ma anche la nostra azienda, proprio perché cresce e investe, ha bisogno di liquidità. Solo che in Italia gareggiamo sempre con l'handicap».

In che senso?

«Faccio un esempio: prendiamo un imprenditore italiano e uno tedesco. In banca, il primo paga molto di più il denaro, soprattutto sui prestiti a lunga durata: quindi se ipotizziamo un investimento a dieci o vent'anni, tipo una fabbrica o un albergo, alla fine l'italiano deve restituire il 40-50% in più del suo omologo tedesco. Se poi prendiamo un imprenditore italiano e uno cinese, non c'è confronto: al cinese il denaro costa un terzo, la manodopera anche meno, ma vende praticamente allo stesso prezzo. Così alla fine il cinese è miliardario e si compra l'azienda dell'italiano»

Infatti, è quello che sta succedendo spesso, nella moda e non solo. C'è chi dà la colpa all'euro e vorrebbe uscirne: condivide?

«Io non voglio uscire dall'euro, voglio invece entrarci. Perché avremo anche una valuta unica, ma paghiamo il denaro più dei tedeschi: forse in California si paga il dollaro più che a New York? No: quindi in realtà noi abbiamo ancora la lira e i greci la dracma. Voglio dire che siamo più deboli, e in pratica dall'euro siamo stati già cacciati».

La riforma del lavoro può essere una soluzione?

«Sono convinto che abbiamo un costo del lavoro insostenibile per le imprese: un operaio che guadagna duemila euro me ne costa seimila, è folle. Ma sono altrettanto certo che i dipendenti hanno una tassazione inaccettabile, a cui non possono sfuggire. Forse dovremmo trovare una detassazione del lavoro a favore del dipendente: e così magari, invece che duemila euro, gliene resterebbero in tasca tremila. Alla fine, è un vantaggio per tutti».

Da dove partirebbe per cambiare?

«Senta, una volta gli italiani erano tutti allenatori della Nazionale e adesso sono tutti presidenti del Consiglio: uno sport che non fa per me. Non ho ricette, penso solo che dovremmo tutti essere più responsabili: ognuno faccia del proprio meglio, e smettiamo di tirarci fango addosso. È un autolesionismo che purtroppo ci danneggia, anche nei confronti dei turisti stranieri. Io non sono particolarmente affezionato agli Stati Uniti, ma in una cosa li invidio: quando sono finite le elezioni, cessano le contrapposizioni e sono una nazione.

Anche noi dovremmo cercare di essere una nazione, che fra l'altro avrebbe tanto da insegnare al mondo».

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