Politica

Banche, referendum e Rai Renzi smentisce se stesso

Il premier nell'angolo tenta di chiamarsi fuori e dà la colpa dei suoi fallimenti a sinistra e predecessori

Banche, referendum e Rai  Renzi smentisce se stesso

Roma - Il presidente del Consiglio Matteo Renzi, nell'intervista concessa ieri a Repubblica, ha cercato di smontare alcuni cliché relativi al suo modo di far politica, cercando di rappresentare una realtà diversa da quella percepita dai cittadini. Il problema è che, purtroppo, il premier è caduto più volte in contraddizione con se stesso. Sul referendum costituzionale, sulla Rai e anche sul dossier banche, Renzi ha finito col negare l'evidenza.

«Personalizzare questo referendum contro di me è il desiderio delle opposizioni, non il mio», ha dichiarato in merito alla consultazione sulle riforme costituzionali. L'esatto contrario di quanto affermato più volte nei mesi scorsi e anche di recente. «Se perdo il referendum costituzionale, considero fallita la mia esperienza in politica», proclamò nella conferenza stampa di fine anno il 29 dicembre scorso. «Se perdo il referendum, smetto di far politica. Non è un plebiscito su di me», rincarò la dose l'11 gennaio. Nel momento in cui i sondaggi hanno iniziato a essere meno favorevoli, il capo del governo ha cercato di «curvare» le sue frasi verso una minore personalizzazione ma senza mai smentirsi. «La riforma costituzionale non deve essere votata su di me. Poi, è chiaro che devo trarre le conseguenze: se non ce la facciamo, vado a casa», precisò il 13 aprile. «Nel caso in cui dovessimo perdere questo referendum ne trarrei le conseguenze anche a livello personale», spiegò il 29 giugno. «Non esiste l'ipotesi che io possa restare se perdo. Se sono sconfitto, me ne vado», ha fatto trapelare sul Corriere lo scorso 14 luglio. Dunque, Renzi non ha detto la verità affermando su Repubblica che la personalizzazione del referendum sia un'invenzione delle opposizioni, avendolo presentato lui stesso come un'ordalia.

Analogamente poco veritiera è l'affermazione «Io non ho messo il naso in nessuna nomina Rai e non intendo farlo adesso». Si tratta del classico storytelling renziano, una narrazione che parte dal lontano 19 aprile 2012 con il famoso tweet «Via i partiti dalla Rai». Un concetto ribadito due anni più tardi: «Io non metterò mai il mio partito nelle condizioni di prendere decisioni sulla Rai» (19 maggio 2014). E riaffermato in maniera sgradevole poco più di due mesi fa: «Quello che farà Campo dall'Orto con la sua squadra lo deciderà lui: i tempi berlusconiani degli editti bulgari non torneranno» (22 maggio 2016). Evidentemente, la recente epurazione di Nicola Porro e di Massimo Giannini deve essere stata opera del Cavaliere. Pure la nomina nel cda Rai di Guelfo Guelfi, spin doctor della campagna elettorale del sindaco di Firenze nel 2009 nonché alla guida di Florence Multimedia (agenzia della Provincia di Firenze) deve essere stata teleguidata da Arcore. La normalizzazione della «ribelle» Rai3 attraverso la nomina di Daria Bignardi a direttore di rete deve essere anch'essa un retaggio del passato.

«Non voglio che per le responsabilità dei politici del passato, e dei banchieri del passato, paghino i cittadini di oggi», ha sottolineato Renzi a proposito del piano di salvataggio del Monte dei Paschi. È la fotocopia di quanto affermato il 23 novembre 2015, poco dopo l'emanazione del decreto salva-banche: «Il governo rende a istituti e lavoratori un futuro, senza soldi pubblici». Il minimo comun denominatore dei due interventi è la Cdp, che è pubblica. Il salvataggio dell'anno scorso, inoltre, comprendeva anche una defiscalizzazione Ires dei 3,6 miliardi versati dalle banche al Fondo di risoluzione. Uno sgravio da circa un miliardo.

Pagato con denari pubblici.

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