Economia

Il bazooka di Draghi è scarico La Bce ignori i veti tedeschi

A differenza degli Usa, l'acquisto di titoli della Banca centrale non ha funzionato: colpa dei troppi vincoli dei Paesi del Nord

Il bazooka di Draghi è scarico La Bce ignori i veti tedeschi

Più del tonfo dei mercati, la batosta a Mario Draghi giovedì scorso, dopo la riunione mensile del Direttivo della Banca centrale europea, dove si prendono le decisioni di politica monetaria per l'area euro, l'ha data Janet Yellen, la sua omologa americana: «Sembra che il mercato si aspettasse certe azioni dalla Bce che non si sono materializzate», ha detto. E con una breve frase ha stigmatizzato l'impotenza di Draghi e della sua Bce.

Non si tratta tanto di giudicare se il Quantitative easing in Europa ha funzionato o meno, ma di capire perché. La presidente della Federal Reserve l'ha fatto intuire. Le misure non convenzionali di politica monetaria nell'area euro non producono gli effetti sperati perché sono sempre molto timide e arrivano troppo tardi. Dunque non raggiungono i loro obiettivi. Questa è la malattia endemica delle istituzioni europee, inclusa la Bce.Era avvenuto il 22 gennaio 2015 con il lancio del primo Quantitative easing, ed è avvenuto di nuovo giovedì scorso. Draghi ha idee buone e tempestive, ma poi deve mediare all'interno del Direttivo e le misure vengono annacquate, perdendo così di efficacia e potenza. Mario Draghi avrebbe voluto estendere la durata del programma di acquisto di titoli di Stato dei paesi dell'eurozona per altri uno-due anni rispetto alla scadenza di settembre 2016 inizialmente prevista, ma è riuscito a spuntare solo un semestre di proroga: unico compromesso possibile con i falchi del Direttivo.

Così come avrebbe voluto aumentare l'importo mensile di acquisti da 60 miliardi a 70-75 miliardi, ma si è dovuto accontentare di mantenere la vecchia soglia. Anche l'ulteriore riduzione, di un decimale da -0,2% a -0,3%, del tasso sui depositi bancari, è la metà dell'intervento, di almeno due decimali, che avrebbe voluto Mario Draghi.Ecco cosa si aspettavano i mercati dal presidente della Bce e perché l'hanno punito. Si aspettavano che facesse quello che aveva in testa, senza il blocco della Bundesbank e degli altri «falchi» del Nord, vale a dire i sostenitori di una politica monetaria meno espansiva. Sessanta miliardi di acquisto di titoli per sei mesi di proroga significa immissione di liquidità in più sui mercati per 360 miliardi di euro. Ma non basta. E non è tanto, o non solo, una questione di numeri, ma di modi.

Mario Draghi non è libero nelle sue scelte, non lo è mai stato. I mercati l'hanno capito e lo puniscono. Janet Yellen lo sottolinea. Tutto questo, però, viene da lontano, e si vede bene mettendo a confronto la risposta che la Bce ha dato alla crisi dal 2008 in poi, con quella della Federal reserve americana nello stesso arco temporale. Negli stessi anni in cui la Bce ha fatto ricorso a 8 strumenti di politica monetaria non convenzionale diversi, sbagliandoli tutti e senza produrre effetti significativi, la Fed ne ha messi in campo solo 3. E tutti andati a segno.Così il 31 agosto 2012 Ben Bernanke ha potuto affermare: «Da alcune simulazioni condotte dalla stessa Federal Reserve è emerso che con i due Quantitative easing, del 2008-2010 e del 2010-2011, sono stati creati 2 milioni di posti di lavoro e il prodotto interno lordo degli Usa è aumentato di almeno il 3% in più rispetto a quanto avrebbe potuto crescere in assenza di interventi da parte della Fed». Nell'eurozona e con la Bce non è andata così. Draghi oggi può solo dire che senza Qe l'eurozona non avrebbe neanche la crescita anemica degli ultimi mesi, ma è evidente che la sua azione è stata e continua ad essere molto limitata.

Mood, questo, teorizzato, voluto e cavalcato dalla Germania e dai suoi sodali del Nord. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: niente crescita, niente occupazione e soprattutto fine dell'Unione europea.Se lo stesso sforzo della Bce di «acquisto massiccio di titoli» fosse cominciato strategicamente e strutturalmente già nell'estate-autunno del 2011, piuttosto che con il Quantitative easing ritardato e vincolato di gennaio 2015, rinnovato giovedì scorso, la storia di questa crisi sarebbe stata diversa.Così come sarebbe stata diversa anche la storia recente del nostro paese: non ci sarebbero state le impennate parossistiche dello spread; non ci sarebbe stata la risibile lettera della Bce al governo italiano; non ci sarebbe stato quell'eccesso di manovre «sangue, sudore e lacrime» che dall'estate-autunno 2011 hanno causato l'avvitamento dell'economia italiana; non ci sarebbe stata la caduta di un governo democraticamente eletto, com'era quello di Berlusconi. E ancora: non ci sarebbe stata la spaccatura dell'Europa, non ci sarebbe stata la tragedia greca e non ci sarebbe stata quell'ondata populista che sta travolgendo tutto e tutti, ivi compresi gli Stati egoisti del Nord.

In questo contesto, il Qe2 di Draghi di giovedì scorso è stata una sorta di «ultima spiaggia». La Bce ha sparato l'ultimo colpo a sua disposizione: dopo non vi saranno più reti di salvataggio. A meno che non si cambi registro e regole del gioco, attribuendo alla Banca centrale europea il ruolo che tutte le principali banche centrali mondiali già hanno: quello di prestatore di ultima istanza, attraverso il quale garantiscono la stabilità finanziaria e livelli di crescita e di occupazione ottimali. Questo significa fornire liquidità alle istituzioni creditizie per prevenire, o contenere, episodi di panico sui mercati, che si verificano a seguito di improvvise perdite di fiducia, da parte dei risparmiatori, in uno o più istituti di credito. Vale a dire quando questi ritirano in blocco la liquidità depositata in banca e le istituzioni finanziarie non hanno le disponibilità liquide necessarie per rimborsare i clienti. Proprio quello che ha fatto la Federal Reserve, tempestivamente, nel 2008.Nonostante il giudizio al vetriolo di giovedì scorso, tuttavia, paradossalmente un aiutino a Mario Draghi per quanto riguarda l'inflazione arriverà proprio da Janet Yellen. È molto probabile, infatti, che la Federal reserve già da questo mese di dicembre comincerà ad alzare i tassi di interesse negli Stati Uniti. Ne deriverà un rafforzamento del dollaro rispetto all'euro, con conseguente leggero aumento dell'inflazione nell'eurozona.

Al punto in cui siamo arrivati, cambiare finalmente lo Statuto della Bce conviene a tutti. Anche ai tedeschi che, dopo tutto quello che è successo, dovrebbero smetterla con la loro ossessione weimariana. E conviene a Mario Draghi, che sta imboccando ormai la parte finale del suo mandato. Perché se andiamo a vedere i risultati del suo operato da quando è presidente, cioè da novembre 2011, e giudichiamo in base all'unico obiettivo che oggi è della Banca centrale europea, un livello dei prezzi stabile intorno al 2%, non è che proprio questo obiettivo sia stato raggiunto: a novembre 2011, l'inflazione nell'area euro era al 3%. A novembre 2015 abbiamo registrato solo 0,1%. Con relativa bassa crescita, alta disoccupazione, squilibri crescenti nei bilanci nazionali e totale impotenza dell'Unione europea.

Con questi chiari di luna facciamoci tristemente una domanda e diamoci amaramente una risposta.

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