Cronache

Il bimbo rapito dall'Isis riabbraccia il papà Ora ne mancano altri 12

Incontro con padre e sorelle del piccolo portato dalla madre in Siria. Il pm: «Ce ne sono ancora»

Il bimbo rapito dall'Isis riabbraccia il papà Ora ne mancano altri 12

L'accanimento ferreo di un padre. Un lavoro certosino di poliziotti e carabinieri. E soprattutto la volontà di un Paese che - a differenza di altre nazioni vicine, e anch'esse alle prese con lo stesso dramma - ha deciso che A. non era un problema di cui liberarsi, una rogna da dimenticare, ma un suo piccolo abitante da riportare a casa. E A. a casa c'è tornato: ieri, sbarcato a Roma da un volo da Beirut, e accolto subito dopo dall'abbraccio della sua famiglia: il padre che non si è arreso, e le sorelle che se lo ricordano come un moccioso sveglio e dolce.

Non è tutto rosa, il finale della storia del piccolo di origini albanesi trascinato cinque anni fa dalla madre dalla quiete di un paese lombardo fin nei territori dell'Isis, e recuperato in un immenso campo profughi. Perché chissà per quanti anni lui e le sue sorelle dovranno fare i conti con un'assenza non facile da elaborare: quella di Valbona, la mamma divenuta islamica e integralista, in un crescendo di fanatismo fino alla decisione di arruolarsi nel Califfato, e morta a luglio sotto le bombe alleate in un attacco che ha ferito anche A. Una madre responsabile di scelte terribili, ma pur sempre una madre. E come non pensare alle altre vittime innocenti morte quel giorno accanto a Valbona: il figlio che la donna aveva avuto dal suo nuovo compagno, e il bambino di lui, piccole vite nate e spente senza avere visto altro che violenza.

Per adesso, però, è il tempo dei sorrisi, dei Lego, delle fotografie, del pollo e delle patatine. «Eccomi, ti avevo promesso che ti avrei riportato a casa», dice il padre ad A., quando lo portano avanti a lui, in una saletta di Fiumicino. «Vienimi a prendere», gli aveva scritto A., in una lettera, dopo il bombardamento che lo aveva lasciato orfano e solo. Lo avevano ribattezzato Yussuf, lo avevano inghiottito in una cultura retrograda e tribale, erano persino riusciti a fargli dimenticare l'italiano, Ma non erano riusciti a strappargli la voglia di tornare a casa.

È lui, che evidentemente è un tipo sveglio, a abbordare una squadra della Croce Rossa di servizio nel grande campo di Al Hol, in Kurdistan siriano, dove lo hanno portato in agosto e destinato alla «zona orfani», altri sciagurati come lui. Si presenta, spiega chi è, e gli dà la lettera per il padre. Da lì comincia tutto. Croce Rossa, Mezzaluna Rossa, Ros, Scip (il servizio di cooperazione internazionale interforze), tutti decisi a riportarlo a casa. In ottobre arrivano al campo le Iene, insieme al padre di A. L'operazione è partita.

C'è stato un momento, una settimana fa, in cui tutto è sembrato bloccarsi. Dai curdi che dirigono il campo, e che si erano impegnati a consegnarlo alle autorità di Tirana (A. ha ancora il passaporto albanese) arriva una frenata improvvisa, incomprensibile. Il complesso apparato che era pronto fin dal 27 ottobre per prendere in consegna il ragazzo si trova bloccato. Ed a quel punto a fare la voce grossa con i curdi è Francesco Rocca, presidente della Croce Rossa italiana e internazionale. Funziona. Mercoledì la Mezzaluna Rossa carica il ragazzo su un piccolo aeroplano e lo porta a Damasco, da lì italiani e albanesi lo accompagnano fino a Beirut.

Ieri, da Roma, i carabinieri del Ros riportano la famiglia al nord. Ma un'ombra angosciante resta su tutta la vicenda, evocata da Alberto Nobili, il pm che interrogherà il ragazzo: quella degli altri A., i dodici piccoli che dall'Italia sono stati trascinati allo stesso modo nelle terre del Califfato, al seguito della follia jihadista dei loro genitori. Non hanno passaporto italiano, come non lo ha A. Come lui, forse, vogliono tonare.

Ma nessuno sa dove siano.

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